Il 12 giugno 2025, il Boeing 787 Dreamliner del volo Air India AI 171, decollando da Ahmedabad, ha perso spinta da entrambi i motori appena tre secondi dopo il decollo, a 08:08:42 UTC (13:38:42 IST) (). La scatola nera registra un panico in cabina e un chiaro “Mayday”. Le leve erano state misteriosamente spostate in posizione Run prima dello schianto, ma la fornitura di kerosene era stata interrotta: un blackout controllato. Chi ha mosso quelle leve?
Le leve erano al loro posto. Ma il kerosene non arrivava più ai motori. La scatola nera racconta di un “Mayday” lanciato nel panico. E sullo sfondo, l’ombra lunga della Boeing e del Federal Bureau americano. Siamo davvero davanti a un errore umano? O c’è qualcosa che non torna?
C’è un momento, in ogni disastro aereo, in cui la cronaca cede il passo all’inquietudine. Quel momento, nel caso del volo Air India precipitato la scorsa settimana con 241 persone a bordo, è arrivato con la rivelazione contenuta nella scatola nera: l’alimentazione del carburante ai motori è stata interrotta volontariamente, poco dopo il decollo.
Una scoperta scioccante. Ma che non spiega tutto.
Il nodo dei certificati falsi
Negli ultimi anni l’India è stata al centro di gravi accuse riguardo la formazione dei piloti, con inchieste e retate che hanno scoperchiato un sistema di abilitazioni truccate. Già nel 2011, la Direzione generale dell’aviazione civile stimava che fino a 4.000 tra comandanti e ufficiali potessero volare con documentazione contraffatta. Nonostante il rafforzamento dei controlli, rimanevano falle clamorose: in alcuni casi, con appena 35 minuti di addestramento si ottenevano certificati che attestavano 360 ore di volo. A rendere più facile la falsificazione, la scarsa digitalizzazione del sistema aeronautico, che ancora si basava in larga parte su documentazione cartacea.
Leve abbassate? No. E allora chi ha spento i motori?
Subito si è parlato di suicidio pilotato, ipotesi ormai ricorrente nei disastri aerei degli ultimi vent’anni (Germanwings, EgyptAir, SilkAir). Ma qui qualcosa non torna. Le leve di controllo della carburazione, dopo l’impatto, sono state trovate in posizione run. Se fossero state abbassate manualmente, come previsto da una procedura di spegnimento, avremmo ritrovato i comandi abbassati o bloccati in posizione cut off. Non è così.
Eppure, la scatola nera registra chiaramente la disattivazione dell’alimentazione ai reattori. L’aereo ha smesso di ricevere carburante, i motori si sono spenti in sequenza. E mentre i piloti, sorpresi, gridavano “Mayday”, il velivolo entrava in stallo. Qualcosa — o qualcuno — ha tolto il carburante al cuore dell’aereo.
in gioco c’è la reputazione commerciale di un’intera famiglia di aeromobili,
e con essa miliardi di dollari in commesse internazionali.
I sospetti su Boeing e la tentazione del silenzio
È qui che l’ipotesi del suicidio collettivo inizia a scricchiolare. Perché, mentre si cerca nella vita dei piloti qualche traccia di disagio, la verità potrebbe trovarsi non nei cockpit, ma nella cabina di progettazione della Boeing.
La Boeing, lo ricordiamo, è non solo costruttrice del velivolo, ma è anche legalmente co-responsabile nel processo investigativo dei disastri aerei che coinvolgono i suoi modelli, grazie a una normativa americana che la accredita come parte tecnica qualificata presso il National Transportation Safety Board (NTSB).
In altre parole: la Boeing partecipa attivamente alle indagini sugli incidenti dei propri velivoli, un ruolo che, da garanzia tecnica, può facilmente mutare in conflitto d’interessi. Specie quando in gioco c’è la reputazione commerciale di un’intera famiglia di aeromobili, e con essa miliardi di dollari in commesse internazionali.
E non sarebbe la prima volta.
Dopo i disastri dei Boeing 737 Max, la compagnia ha già dimostrato una certa reticenza nel comunicare falle progettuali, solo ammesse dopo pressioni pubbliche e documenti interni trapelati. Oggi, a pochi giorni dalla tragedia Air India, è legittimo domandarsi se dietro il silenzio dei comunicati ufficiali non si nasconda una nuova zona grigia, magari un bug informatico, una valvola difettosa, un sistema automatico che può escludere i motori in volo senza comando diretto.
Il peso delle ombre e la verità che manca
Nel frattempo, la stampa indiana è sotto pressione, i parenti delle vittime chiedono chiarezza, e le agenzie di sicurezza indagano. Ma più passa il tempo, più lo scenario si ingarbuglia. Le indagini sulla vita privata dei piloti — come sempre accade — rischiano di trasformarsi in un diversivo morboso, mentre il nocciolo tecnico resta intoccabile.
Perché un aereo perfettamente funzionante ha smesso di volare, senza apparente motivo? Se si è trattato di un atto volontario, perché i comandi erano nella posizione opposta? Se si è trattato di un guasto, chi ha progettato il sistema che ha permesso — o causato — la chiusura automatica dell’alimentazione?
E soprattutto: chi ha interesse a farci credere che è stato solo un errore umano?
Il diritto alla verità
In un’epoca in cui il trasporto aereo dipende dalla fiducia, non bastano più i rapporti tecnici. Serve trasparenza piena, accesso agli atti, vigilanza da parte di organismi indipendenti. Perché un incidente può anche essere casuale. Ma la manipolazione della verità è sempre intenzionale.
Se davvero i piloti di Air India hanno spento i motori, vogliamo saperlo. Ma se qualcuno ha costruito un aereo capace di spegnersi da solo, o di essere spento da remoto, senza che nemmeno i piloti se ne accorgano, allora abbiamo il diritto — e il dovere — di saperlo subito.
La verità non vola da sola. Va cercata. Anche quando tutti sembrano volerla far atterrare prima del tempo.