La basilica di Santa Maria Maggiore, chiamata anche la “Betlemme di Roma” per le vestigia della culla di Gesù sotto l’altare maggiore, ci aiuta a riflettere sul momento epifanico dell’Incarnazione e ad accostarci sia ai pastori che ai magi.

Negli anawim Jahvé, i diseredati di Israele perché nomadi e poveri per la loro attività di pastori, riconosciamo oggi il nomadismo intellettuale dell’affannosa ricerca di Dio di tanti contemporanei, afflitti da una povertà interiore e spirituale che spesso coincide anche con il disagio sociale ed economico.

A queste povertà esistenziali il primo antidoto è l’ascolto della Parola di Dio, che vede ancora una volta in Maria il modello di fede.

Maria è beata perché ha creduto, ma anche perché ha saputo incontrare il Signore nell’ascolto di un silenzio interiore nella sua casa di Nazaret al momento dell’Annunciazione.

La sua beatitudine riceve dal Signore il pubblico riconoscimento di un ascolto attivo: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e la custodiscono” (cfr. Lc 11,28).

Come disse Benedetto XVI nell’omelia pronunciata in occasione della Giornata Mondiale della Pace del 2008, «Maria serbava queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19).

Il verbo greco usato “sumbállousa” letteralmente significa “mettere insieme” e fa pensare a un mistero grande da scoprire poco a poco. Il Bambino che vagisce nella mangiatoia, pur apparentemente simile a tutti i bimbi del mondo, è al tempo stesso del tutto differente: è il Figlio di Dio, è Dio, vero Dio e vero uomo. Questo mistero – l’incarnazione del Verbo e la divina maternità di Maria – è grande e certamente non facile da comprendere con la sola umana intelligenza.

Alla scuola di Maria però possiamo cogliere con il cuore quello che gli occhi e la mente non riescono da soli a percepire, né possono contenere. Si tratta, infatti, di un dono così grande che solo nella fede ci è dato accogliere pur senza tutto comprendere.

Ed è proprio in questo cammino di fede che Maria ci viene incontro, ci è sostegno e guida.

Lei è madre perché ha generato nella carne Gesù; lo è perché ha aderito totalmente alla volontà del Padre.

Scrive sant’Agostino: “Di nessun valore sarebbe stata per lei la stessa divina maternità, se lei il Cristo non l’avesse portato nel cuore, con una sorte più fortunata di quando lo concepì nella carne” (De sancta Virginitate, 3,3).

E nel suo cuore Maria continuò a conservare, a “mettere insieme” gli eventi successivi di cui sarà testimone e protagonista, sino alla morte in croce e alla risurrezione del suo Figlio Gesù».

L’assemblaggio progressivo di queste tessere teofaniche non è un fatto isolato.

La fede è un atto personale: è la libera risposta dell’uomo all’iniziativa di Dio che si rivela.

Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo.

Nessuno si è dato la fede da sé stesso, così come nessuno da sé stesso si è dato l’esistenza.

Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere.

Il nostro amore per Gesù e per gli uomini ci spinge a parlare ad altri della nostra fede. In tal modo ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti.

Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri.

S. Ambrogio, che definisce Maria il «typus Ecclesiae» (P.L. 15, 1555) e ancora: «figura Ecclesiae» (P.L. 16, 326), a cui S. Agostino fa eco: «Ipsa (Maria) figuram in se sanctae Ecclesiae demonstravit» (P.L. 40, 661); perché la generazione virginale di Gesù è misticamente riprodotta in quella materna e soprannaturale della Chiesa rispetto ai fedeli.

Maria è il modello della Chiesa (cfr. Lumen Gentium, n. 53). Ella «racchiude in eminenza tutte le grazie e le perfezioni» della Chiesa (Olier); quelle che noi dovremmo e vorremmo avere.

Una fede senza le opere, però, è morta.

«Uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede (Cfr. Gc 2, 18)».