Viviamo in un’epoca segnata dalla saturazione del linguaggio simbolico e dalla sclerosi dell’impatto pubblico delle manifestazioni di piazza. È ancora efficace sfilare? È ancora utile? È ancora significativo? Mi riferisco in particolare a due fenomeni opposti ma ugualmente emblematici: le marce del Gay Pride e le Marce per la Vita. Entrambe pretendono di parlare al cuore delle nazioni. Ma lo fanno ancora? Oppure, paradossalmente, si parlano addosso, in un dialogo autoreferenziale che rischia di trasformarsi in rito identitario, più che in strategia trasformativa?
Tra USA, Europa e Ungheria: una geografia della polarizzazione
Negli Stati Uniti, le manifestazioni LGBTQ+ sono ormai integrate nella narrazione mainstream, sponsorizzate da amministrazioni pubbliche e multinazionali. Ma è significativo che anche la Marcia per la Vita, soprattutto a Washington, continui a mobilitare centinaia di migliaia di persone, grazie a un retroterra educativo e religioso non ancora dissolto.
In Europa occidentale, il panorama è ben più sfilacciato. In Francia, ad esempio, il Gay Pride parigino si è trasformato in un mix di festa popolare, contenuto politico e provocazione commerciale. È vero: alcuni temi, come la GPA (gestazione per altri), dividono persino l’area LGBTQ+ stessa. Ma il punto è che la società francese sembra aver anestetizzato la protesta, inglobandola in un sistema mediatico che digerisce tutto. Quanto alla Marcia per la Vita, continua a esserci, ma è relegata in una bolla, ignorata dai media generalisti, caricata di simboli religiosi e incapace di parlare a chi non frequenta già le sacrestie.
In Polonia, invece, le Marce per la Vita godono ancora di un certo sostegno popolare, soprattutto grazie al legame con la Chiesa e al clima politico conservatore. Ma anche qui c’è il rischio che diventino strumenti di propaganda del governo, piuttosto che testimonianze profetiche. I Gay Pride, spesso ostacolati, finiscono per assumere una valenza di resistenza, ma con numeri limitati e una narrazione che raramente riesce a oltrepassare i confini delle grandi città.
Italia: il laboratorio del grottesco
E poi c’è l’Italia, che merita un discorso a parte. Qui siamo al limite del tragicomico. Da un lato, i Gay Pride sono diventati eventi caricaturali in cui la causa dei diritti viene ridotta a palcoscenico di parate folkloristiche, con tanto di carri arcobaleno sponsorizzati da grandi marchi, trans travestiti da angeli e politici alla disperata ricerca di visibilità. Non è mancato, nei Pride degli ultimi anni, Elly Schlein che è salita sul carro come in un corteo elettorale, tra l’applauso delle drag queen e il compiacimento dei giornali del giorno dopo. Una performance politica più che una battaglia civile, più simile a una recita narcisistica che a una proposta culturale.
Dall’altro lato, le Marce per la Vita italiane sembrano processioni di quartiere organizzate dai cattolici tradizionalisti, gli stessi che insultano il Papa anche a mezzo di manifesti anonimi e abusivi, che portano ancora la maglietta con scritto “Benedetto è il mio Papa” , accompagnati da qualche politico di destra, cartelloni con feti giganti e slogan ripetitivi che non bucano il muro dell’indifferenza. A tratti sembrano eventi costruiti più per farsi notare da qualche finanziatore statunitense o da oligarchi ortodossi legati a Mosca, che per cambiare davvero qualcosa nella cultura italiana. Pecunia non olet, dicevano i latini. Ma a volte, purtroppo, si sente e spiega le divisioni interne…
Il vero paradosso è che in Italia, entrambe le manifestazioni sembrano parlare a una platea ristretta, autoreferenziale, senza capacità di uscire da sé. Né i Pride né le Marce sembrano voler parlare al “Paese reale”. Non c’è né confronto, né ascolto. Solo vetrine: per gli influencer dell’identità di genere o per i nostalgici della sacralità perduta.
Infine, l’Ungheria e altri paesi dell’Est europeo ci mostrano un’altra traiettoria: qui, il potere politico ha ripreso in mano la moralità pubblica, reprimendo i Pride e favorendo leggi pro-life, ma spesso strumentalizzando i temi etici per fini nazionalistici e di controllo ideologico. È davvero questa l’alternativa? Una morale imposta dall’alto, utile al potere ma non certo al Vangelo?
La crisi della manifestazione come strumento culturale
La domanda è inevitabile: manifestare serve ancora? Le piazze riescono ancora a cambiare qualcosa nel cuore di una civiltà che ha trasformato i desideri in diritti, e i diritti in assoluti intoccabili? O siamo di fronte a una nuova forma di tribalismo, dove ogni gruppo si mostra, si esibisce, si rassicura nella propria identità, ma smette di parlare all’altro?
I Gay Pride, nella loro forma più recente, sembrano talvolta ricalcare la logica della sacralizzazione dell’io, dove l’autenticità individuale diventa dogma e qualsiasi contestazione è subito tacciata di “odio”. Allo stesso tempo, alcune Marce per la Vita rischiano di apparire come esercizi di testimonianza interna, rivolti più ai già convinti che al cuore del mondo secolarizzato.
Il rischio, in entrambi i casi, è che si trasformino in liturgie sociali di nicchia, che non incidono più sull’immaginario collettivo, perché non pongono più domande vere, né offrono visioni capaci di generare attrazione.
L’alternativa: dal clamore alla cultura, dalla protesta alla proposta
Come sociologo della comunicazione cattolico, vedo un passaggio fondamentale davanti a noi: la fine dell’illusione che basti manifestare per cambiare. Non basta “essere visibili”. Non basta “occupare le piazze”. Non basta “fare rumore”.
Il mondo è cambiato. Oggi la battaglia è culturale e antropologica, non di superficie. Occorre passare dal proclama alla proposta, dall’identitarismo all’ascolto critico, dalla reazione alla rigenerazione. Le vere trasformazioni oggi passano dalle scuole, dalle famiglie, dalle università, dai media, dai luoghi dell’anima.
In questo senso, le manifestazioni possono ancora avere un senso – ma solo se sono innervate da un pensiero forte, se sanno essere luoghi di incontro e non di scontro, se smettono di essere ostentazione e tornano ad essere interrogazione profonda sul senso dell’umano.
Verso una nuova grammatica del vivere insieme
La società contemporanea ha bisogno di segni, ma di segni che aprano, non che escludano. Ha bisogno di testimoni, non solo di slogan. Ha bisogno di profeti, non di comparse.
Il Gay Pride potrà continuare ad avere senso solo se saprà riconoscere i propri limiti, aprirsi al dialogo con chi ha domande autentiche sull’antropologia umana, sulla famiglia, sulla differenza sessuale, senza censurare né demonizzare. La Marcia per la Vita potrà ancora incidere se saprà parlare con il linguaggio della misericordia, dell’accompagnamento, della prossimità, ella valorizzazione e del rispetto della vita nascente, non del braccio di ferro tra pro-life e pro-choice per test elettorali.
Il Vangelo non ha bisogno di piazze, ma di uomini nuovi
Per la coscienza cristiana, la piazza non è mai il fine. È uno strumento, che può diventare testimonianza oppure vuota esibizione. La vera sfida è formare coscienze, generare cultura, vivere una fede incarnata che non teme il dialogo ma non svende la verità.
Siamo nell’epoca delle “battaglie culturali”. Ma la cultura non nasce dal rumore. Nasce dal silenzio fecondo, dalla fedeltà quotidiana, dalla bellezza che interroga. Se le piazze non saranno capaci di essere questo, allora sì: saranno inutili, o peggio, dannose. E resteranno simboli di un’umanità frantumata, dove ognuno urla il proprio diritto, ma nessuno è più capace di offrire il dono della verità.