Gli scandali che scuotono Kiev – ministri travolti dalla corruzione e aziende coinvolte nel traffico di componenti per i droni Shahed usati dalla Russia – non assolvono l’aggressione di Mosca, ma ci ricordano che la verità va difesa da due nemici: la corruzione e la manipolazione.
C’è un paradosso doloroso che attraversa l’Ucraina mentre il fronte orientale vacilla attorno a Pokrovsk e la guerra sembra entrare in una fase ancora più dura. Da una parte, enormi sacrifici quotidiani: città colpite, famiglie in fuga, giovani che rischiano la vita al fronte, un Paese che prova a non cedere all’oscurità. Dall’altra, l’ennesima ferita interna, che arriva da due fronti diversi ma si intreccia in un’unica domanda: quanto può sopportare una nazione aggredita quando, oltre alle bombe russe, deve respingere anche i colpi della corruzione?
Il primo capitolo di questa nuova crisi è quello dei ministri costretti a lasciare l’incarico, travolti da un’inchiesta su tangenti milionarie legate all’energia. Una vicenda che ha il sapore di un tradimento morale: mentre il Paese combatte per la propria sopravvivenza, c’è chi – nelle stanze del potere – pensa ancora ai profitti personali, ai contratti gonfiati, alle vecchie logiche dei clan politico-economici. Zelensky ha chiesto le dimissioni, e quelle dimissioni sono arrivate. Ma il danno non lo cancella nessun atto formale. Il popolo che resiste, quello che vive nelle città al buio sotto i missili, è stanco di scoprire che chi dovrebbe proteggerlo a volte pensa solo a sé.
Il secondo capitolo è ancora più amaro, e arriva da Washington: due aziende ucraine, secondo il Dipartimento del Tesoro USA, avrebbero fornito componenti aerospaziali a una rete iraniana collegata alla fabbricazione dei droni Shahed. Gli stessi droni che ogni notte piombano sulle case di Kiev e di Odessa. È il cortocircuito morale più doloroso: mentre il Paese chiede mezzi per difendersi, mentre i partner occidentali investono miliardi, due società – opache, elusive, forse infiltrate – alimentano indirettamente l’arma che semina distruzione sul loro stesso popolo.
La corruzione non è mai un fatto isolato: è un veleno che scorre nelle crepe di un sistema, soprattutto quando quel sistema è sotto pressione, quando il tempo di guerra rende tutto più urgente e più fragile. E la fragilità, in Ucraina, ha oggi una valenza geopolitica enorme. Nelle capitali occidentali aumenta la fatica, nelle opinioni pubbliche cresce la tentazione di chiedere: “Perché aiutare un Paese che non riesce a proteggersi da se stesso?”. È qui che la narrazione rischia di essere sequestrata dalla propaganda russa, che ama sovrapporre corruzione interna e aggressione esterna, come se la prima giustificasse la seconda.
La verità cristiana, però, non si piega al ricatto della semplificazione.
La corruzione ucraina non cancella la responsabilità dell’aggressore. Non trasforma l’invasione russa in un gesto legittimo, né le sofferenze degli ucraini in un “problema interno”. Ma proprio perché non cancella nulla, ci pone davanti a un obbligo morale più grande: riconoscere la complessità senza cadere nella menzogna. L’Ucraina non è un Paese perfetto: è un Paese ferito. E la ferita più profonda, oggi, non è solo la linea del fronte: è la distanza tra il sacrificio del popolo e le opacità di chi ancora traffica con il potere come se nulla fosse.
Non possiamo lasciare che lo scandalo diventi un alibi per smettere di sostenere chi sta difendendo una libertà che non è solo la sua. Ma non possiamo, allo stesso tempo, fingere che il male interno non esista. Anzi. Proprio chi vuole una pace giusta ha il dovere di chiedere a Kiev una lotta radicale contro la corruzione, perché solo la trasparenza ridà forza alla verità, e solo la verità può vincere la propaganda.
La dottrina sociale della Chiesa lo ripete da sempre: la pace non nasce dove il potere si compra. Nasce solo dove il bene comune viene prima dell’interesse privato, dove la comunità è più forte della furbizia, dove la giustizia interna è la prima forma di resistenza contro ogni aggressione esterna.
L’Ucraina di oggi è un Paese che combatte due guerre: una contro l’esercito russo, l’altra contro un passato che non vuole morire. Ma questa duplice battaglia, se affrontata con sincerità e fermezza, può diventare la sua forza. Perché un popolo che guarda in faccia la verità, anche quando fa male, è un popolo che non si lascia comprare né dall’ingiustizia né dalla paura. E che continua a credere che un futuro esista, anche quando il presente sembra negarlo.
È in questo spazio fragile, ma reale, che noi cristiani siamo chiamati a stare: vicino alle vittime, non alle versioni; vicini alla verità, non ai calcoli; al fianco di chi soffre, non di chi specula.
Ed è da qui, forse, che può rinascere una speranza che non sia solo geopolitica: la speranza che la giustizia, anche tra le macerie della guerra, sia ancora possibile.
