Nel reparto di Radiologia dell’ospedale di Piacenza, per oltre quindici anni, si è consumata una vicenda di abusi e silenzi che oggi scuote le coscienze. Il primario Emanuele Michieletti, ora ai domiciliari per violenza sessuale e atti persecutori, è descritto come un “padre-padrone” temuto e protetto, che ha potuto disporre del personale come di un feudo privato. Ma il dramma più profondo non sta solo nei suoi gesti, bensì nel contesto che li ha resi possibili. Un’intera comunità lavorativa – con pochi, troppo pochi, che hanno avuto il coraggio di parlare – ha lasciato che l’omertà diventasse normalità. È tempo di spezzare il silenzio, per amore della verità e delle vittime.
«Tutti sapevano, ma nessuno parlava». La frase – riportata dai messaggi che in queste ore rimbalzano tra medici e infermieri dell’ospedale di Piacenza – fotografa più di un contesto lavorativo: è il ritratto amaro di una cultura ancora troppo diffusa, in cui l’abuso si nutre della paura e dell’indifferenza. La vicenda del professor Emanuele Michieletti, primario di Radiologia arrestato e posto ai domiciliari con l’accusa di violenza sessuale aggravata e atti persecutori, richiama tutti, credenti e non, a una riflessione morale, civile e spirituale.
Il “sistema Michieletti”, come lo definiscono gli stessi operatori sanitari, non era solo una questione di gesti isolati. Secondo quanto accertato dalla Procura, si trattava di un regime di dominio fondato su gerarchie personali, timori reverenziali, favori scambiati con fedeltà cieche. La logica era quella dell’harem e della ritorsione: chi si opponeva alle avance del primario veniva colpito con turni sfavorevoli, ferie negate, isolamento. Le “risorse umane” – scrive un testimone – erano trattate come “beni privati di cui disporre”.
Ma il punto più grave, teologicamente parlando, è l’assuefazione collettiva al male. La struttura dell’abuso è sempre sistemica. Le vittime dirette sono donne, colleghe, infermiere, medici. Ma le vittime indirette siamo tutti noi, ogni volta che chiudiamo gli occhi. Ogni volta che, come comunità civile o ecclesiale, rinunciamo a proteggere, denunciare, ascoltare. E ogni volta che lasciamo le persone sole a subire, confidando che “prima o poi qualcuno se ne andrà”, ma senza mai avere la forza di “mettere mano finalmente a tutti i mali”.
Il peccato dell’omertà
Non basta invocare la legge – che pure ha finalmente parlato con le intercettazioni e le prove raccolte. Occorre domandarsi: com’è possibile che, per oltre 15 anni, tutto questo sia stato conosciuto e accettato? Come si è potuto cedere all’idea che questo fosse “normale”? E quante realtà simili, in ambito sanitario, scolastico, ecclesiale, sociale, vivono ancora sotto la coltre dell’impunità?
Papa Francesco ha più volte indicato nella “mondanità spirituale” una delle piaghe peggiori della Chiesa e della società: quando il potere diventa idolo e si copre con la religione, la competenza o il prestigio accademico, la coscienza si intorpidisce. Anche oggi, il pericolo non è solo l’abusatore, ma il contesto che lo tollera.
Il male sistemico prospera dove non c’è trasparenza, dove le donne non sono ascoltate, dove il potere è concentrato e non viene controllato. E dove chi denuncia viene isolato.
La responsabilità collettiva
C’è una giovane dottoressa che ha parlato. Ha denunciato, ha rotto il silenzio. È stata aiutata solo dal caso – un collega che ha bussato alla porta – e non da un sistema protettivo. Altre donne hanno esitato, una ha ritirato la denuncia. Qualcuna in passato ha chiesto il trasferimento. Troppo poco. Troppo tardi. Eppure, ogni passo conta.
Chi ha responsabilità in ospedale, nei sindacati, nella formazione del personale, nei ruoli direttivi deve assumersi oggi un compito: costruire ambienti sicuri, garantire ascolto, protezione, giustizia. E nella società più ampia – anche tra noi giornalisti, educatori, pastori – non possiamo più permetterci di “saperlo” e non agire.
Dobbiamo farlo per le vittime. Dobbiamo farlo per noi stessi. Perché, come insegna la Scrittura, Dio non è nei palazzi dei potenti, ma nel grido degli oppressi: «Ho udito il grido del mio popolo» (Es 3,7).
Uscire dalla complicità
Non basta indignarsi. Serve una cultura nuova, fatta di formazione all’etica, educazione al rispetto, giustizia restaurativa. Serve che la denuncia non sia vissuta come un tradimento, ma come un atto di amore verso la verità. E serve che la Chiesa, i credenti, i giornalisti, gli operatori sanitari e scolastici dicano finalmente “mai più”.
Dio non chiede il silenzio, ma la giustizia. E la giustizia comincia quando smettiamo di girarci dall’altra parte.
Ogni forma di abuso che si perpetra con l’aggravante dell’autorità sulle vittime va contrastata e condannata.