Armonizzare il linguaggio della forza con la grammatica della giustizia, della coesione e della solidarietà

La parabola della Comunità europea di difesa – dalla sua intuizione fondativa nel 1950 alla sua mancata ratifica nel 1954 – costituisce una pagina emblematica della storia dell’integrazione europea, una promessa incompiuta che, nel suo fallimento, ha saputo generare visioni, precauzioni e maturazioni politiche di lungo periodo. Quella sconfitta non fu vana: essa segnò l’avvio di un percorso graduale e realistico verso forme sempre più sofisticate di cooperazione nel campo della sicurezza, attraverso l’esperienza della UEO, la costruzione della PESC e infine la nascita della PSDC. Oggi, nell’epoca dei rischi transnazionali e delle responsabilità globali, l’Unione è chiamata a raccogliere quell’eredità in modo consapevole e generativo, superando le frammentazioni del passato per costruire un’autentica cultura europea della pace e della responsabilità strategica. La difesa comune, se ancorata ai principi della legalità internazionale, del multilateralismo efficace e della dignità umana, può costituire non solo un moltiplicatore di sicurezza, ma un laboratorio di civiltà, un ponte tra le memorie del passato e le attese del futuro. L’Europa sarà davvero sovrana non quando disporrà soltanto di mezzi militari comuni, ma quando saprà armonizzare il linguaggio della forza con la grammatica della giustizia, della coesione e della solidarietà. In questo senso, la Comunità europea di difesa non è un progetto del passato: è un’idea ancora viva, che attende di essere realizzata alla luce di un rinnovato patto tra gli Stati e i popoli europei.

Introduzione

Nel cuore della riflessione sull’identità geopolitica dell’Unione Europea, la questione della difesa comune riemerge con forza quale paradigma irrisolto e insieme visione generativa di un progetto politico capace di coniugare sovranità condivisa, sicurezza collettiva e responsabilità globale. In un contesto internazionale segnato da instabilità diffusa, da forme di guerra ibrida e da una crescente fragilità degli assetti multilaterali, l’Europa è oggi chiamata a ripensare profondamente il proprio ruolo strategico, riaffermando la necessità di una voce unitaria e credibile nel campo della sicurezza e della difesa. L’aspirazione a una difesa europea integrata, lungi dall’essere una mera risposta a contingenze emergenziali, affonda le proprie radici nei fondamenti storici del processo di integrazione continentale. Già nel secondo dopoguerra, alla luce delle tensioni sistemiche della Guerra fredda e dell’urgenza di un contenimento delle derive revansciste e dei rischi di un riarmo incontrollato, prese forma un ambizioso tentativo di costruzione di una Comunità Europea di Difesa – CED, orientata alla creazione di un esercito europeo sotto un comando sovranazionale. Benché naufragata dinanzi alle resistenze politiche interne e alle paure legate alla rinuncia a prerogative nazionali sovrane, quell’esperienza rappresentò un momento fondativo, un esperimento precursore di un’Europa capace di dotarsi di strumenti istituzionali comuni per far fronte alle minacce alla pace. Nel tempo, la memoria della CED ha continuato ad agire silenziosamente come archetipo di un’Europa che cerca nella condivisione della sicurezza un terreno concreto di coesione politica e di legittimazione della propria soggettività internazionale. A partire da tale orizzonte ideale, la Politica Estera e di Sicurezza Comune e la Politica di Sicurezza e di Difesa Comune hanno progressivamente assunto un profilo più strutturato, dando vita a un corpus di strumenti, istituzioni e missioni che, sebbene ancora distanti da un’effettiva autonomia strategica, testimoniano un’evoluzione significativa verso forme di cooperazione rafforzata e integrazione funzionale. L’attuale fase storica, segnata da conflitti regionali, tensioni transatlantiche, minacce cibernetiche e rinnovate posture assertive di attori globali e regionali, impone all’Unione Europea una riflessione radicale e lungimirante sulla natura del potere, sulla responsabilità strategica e sul ruolo della difesa comune come strumento non solo di deterrenza, ma anche di promozione attiva della pace, della giustizia e del multilateralismo efficace. Ripercorrere, dunque, la parabola della Comunità Europea di Difesa – dalla sua genesi nell’immediato dopoguerra alle sue successive trasfigurazioni politico-istituzionali – non risponde a un’esigenza meramente archivistica, ma costituisce un passaggio essenziale per comprendere le radici profonde dell’attuale dibattito strategico europeo. Solo attraverso la riappropriazione consapevole delle lezioni del passato sarà possibile delineare con chiarezza la traiettoria futura di un’Europa che intenda realizzare appieno la propria vocazione geopolitica, nella fedeltà al principio della pace quale fondamento costitutivo della sua identità.

La genesi della Comunità europea di difesa (1950–1954)

La nascita della Comunità europea di difesa si colloca all’intersezione di una pluralità di tensioni storiche e geostrategiche che, nel secondo dopoguerra, ridisegnarono profondamente gli equilibri del continente. Due questioni emergevano con urgenza: la necessità di reintegrare la Germania nel consesso occidentale in modo controllato, e quella di garantire alla Francia – ancora profondamente segnata dal trauma dell’occupazione nazista – una cornice di sicurezza collettiva che ne rafforzasse la posizione nel nuovo ordine euro-atlantico. In tale quadro, l’ipotesi di un riarmo tedesco costituiva al tempo stesso una premessa ineludibile per l’equilibrio militare nella logica del contenimento sovietico, e un elemento di inquietudine politica e psicologica per le classi dirigenti francesi e per l’opinione pubblica europea. È in questo contesto che matura l’idea di una difesa europea integrata, proposta nel 1950 dal Primo Ministro francese René Pleven. L’intuizione, profondamente influenzata dalla visione federalista di Jean Monnet, era quella di risolvere il problema della sicurezza europea e della partecipazione tedesca attraverso una struttura sovranazionale capace di superare le diffidenze reciproche e di incanalare le forze armate degli Stati membri in un dispositivo unitario e armonizzato. Il Piano Pleven, presentato ufficialmente all’Assemblea nazionale francese nell’ottobre del 1950, prevedeva la costituzione di un esercito europeo, con comando unificato, bilancio comune e responsabilità affidata a un ministro della difesa europeo, il tutto collegato alle istituzioni della nascente Europa comunitaria. L’ambizione di tale progetto si collocava ben al di là della logica funzionalista della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio – CECA. Qui non si trattava solo di integrare settori produttivi strategici, ma di dare forma a una vera e propria architettura politico-istituzionale in materia di sicurezza, che toccava il cuore delle sovranità nazionali. L’idea di un esercito europeo, basato su unità multinazionali, sotto un comando comune e con un controllo parlamentare condiviso, incarnava un’innovazione radicale, tale da porre le basi per una potenziale “costituzionalizzazione” della politica di difesa su scala sovranazionale. Il Trattato istitutivo della CED venne firmato a Parigi il 27 maggio 1952 da sei Paesi (Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo), e prevedeva l’istituzione di un’Alta Autorità militare, un’Assemblea parlamentare europea e un Consiglio dei ministri degli Stati membri. La costruzione immaginata mirava a integrare, sin dal livello dei battaglioni, le forze armate nazionali in un unico dispositivo europeo, subordinato alle linee strategiche della NATO ma dotato di autonomia operativa e coerenza politica propria. L’entusiasmo che accompagnò inizialmente il progetto rifletteva tanto l’urgenza strategica imposta dalla guerra di Corea e dal timore di una replica del conflitto su suolo europeo, quanto la consapevolezza che l’unificazione militare avrebbe potuto agire da volano per un’integrazione politica più profonda. In questa prospettiva, la CED non rappresentava soltanto uno strumento di razionalizzazione della difesa occidentale, bensì un vero banco di prova per la costruzione di una comunità di destino tra gli Stati dell’Europa occidentale. Tuttavia, sin dalla sua genesi, il progetto fu oggetto di tensioni latenti. Le differenze tra l’approccio statunitense, favorevole a una rapida integrazione delle divisioni tedesche sotto l’ombrello NATO, e quello francese, improntato a una cautela istituzionale e a una visione più politica del disegno europeo, rivelarono sin da subito le fratture strategiche e culturali interne al campo occidentale. L’idea francese di subordinare la partecipazione tedesca alla creazione di un’istituzione europea autonoma entrava in conflitto con le logiche funzionali del Patto Atlantico, che privilegiavano l’efficienza operativa rispetto alla legittimazione politica. Nonostante tali divergenze, i negoziati condotti a Parigi tra il 1951 e il 1952 giunsero alla formalizzazione di un trattato giuridicamente innovativo, frutto di un equilibrato compromesso tra esigenze strategiche e aspirazioni federali. Tuttavia, come si vedrà nella sezione successiva, la ratifica del Trattato da parte dei Parlamenti nazionali – in particolare quello francese – si sarebbe rivelata l’ostacolo insormontabile di un sogno precocemente infranto.

Le ragioni del fallimento: tra sovranità e consenso

Il fallimento della Comunità Europea di Difesa, sancito dalla mancata ratifica del Trattato da parte dell’Assemblea nazionale francese nell’agosto del 1954, non fu semplicemente il naufragio di un progetto giuridico e militare ambizioso, ma il sintomo profondo delle tensioni politiche, culturali e psicologiche che attraversavano l’Europa del dopoguerra. Dietro la retorica dell’integrazione si celavano, infatti, timori ancestrali, resistenze strutturali e ambiguità irrisolte che resero impossibile, in quella congiuntura, il superamento degli orizzonti della sovranità nazionale in un settore così sensibile come la difesa. L’opposizione che maturò nel Parlamento francese non fu né episodica né marginale: essa rifletteva un sentimento diffuso di diffidenza verso la rinuncia a prerogative essenziali dello Stato, primo fra tutti il monopolio sull’uso legittimo della forza. Il ricordo delle due guerre mondiali, ancora vivissimo nella memoria collettiva, alimentava una doppia paura: da un lato, quella di un ritorno dell’aggressività tedesca, percepita come un rischio latente dietro la facciata del riarmo integrato; dall’altro, la sensazione di un indebolimento dell’identità francese all’interno di una costruzione sovranazionale che molti giudicavano troppo audace e prematura. In particolare, il nodo dell’integrazione dei contingenti tedeschi, per quanto limitata e rigidamente normata, sollevava obiezioni non solo tecniche ma eminentemente simboliche. La prospettiva di vedere ufficiali tedeschi operare in un quadro comune con le altre forze europee evocava, per larghi settori dell’opinione pubblica francese, immagini ancora troppo recenti e dolorose. La tensione fra la volontà di riconciliazione e il peso del passato appariva così insanabile, nonostante l’impegno di statisti lungimiranti come Monnet, Schuman e Adenauer. A ciò si aggiungeva una problematica tutta interna all’ordinamento istituzionale francese dell’epoca: la Quarta Repubblica, segnata da una forte instabilità governativa e da un potere esecutivo indebolito, non era nella condizione politica di sostenere una scelta tanto dirompente. Le forze politiche erano divise non solo sull’opportunità della CED, ma sul più generale rapporto tra Francia e progetto europeo: le sinistre temevano una militarizzazione dell’integrazione; i gollisti diffidavano della cessione di sovranità; i partiti di centro apparivano paralizzati tra prudenza tattica e adesione al disegno europeista. Sul piano geopolitico, il disegno della CED soffriva inoltre di una persistente ambivalenza transatlantica. Gli Stati Uniti, pur sostenitori ufficiali del progetto, tendevano a privilegiare il modello NATO quale strumento principe di deterrenza e controllo strategico. La prospettiva di un’autonoma architettura europea della difesa, pur formalmente compatibile con il sistema atlantico, veniva percepita da taluni ambienti americani come una potenziale deviazione rispetto al principio del comando integrato. Questa ambiguità – mai risolta – contribuì a indebolire la fiducia politica nel progetto, privandolo del necessario sostegno incondizionato. In ultima analisi, il fallimento della CED deve essere letto come l’esito di una mancata maturazione politica del consenso attorno all’idea di un’Europa sovrana nella propria difesa. La dialettica tra integrazione e identità nazionale, tra cooperazione e potere statale, non trovò un punto di equilibrio sufficiente a reggere l’urto della ratifica parlamentare. L’intuizione strategica alla base del Piano Pleven – quella di fondare la sicurezza europea sulla solidarietà istituzionale anziché sulla sola alleanza militare – rimase confinata nell’ambito dell’utopia razionale. E tuttavia, quel fallimento, lungi dal chiudere definitivamente il capitolo della difesa europea, ne rappresentò paradossalmente l’inizio. Il trauma istituzionale lasciò un’eredità profonda: la consapevolezza che ogni progresso nel campo della sicurezza comune dovesse poggiare su basi politiche più solide, su una più intensa legittimazione democratica e su una progressiva convergenza di interessi tra gli Stati membri. La lezione della CED non fu, dunque, un ammonimento contro l’integrazione, ma un invito a ripensarne le modalità, i tempi e gli strumenti.

La lunga transizione: dalla UEO alla PESD e alla PSDC

Il fallimento della Comunità europea di difesa non sancì il definitivo abbandono dell’idea di una sicurezza europea integrata, ma ne avviò una lenta metamorfosi, segnata da tentativi prudenziali, adattamenti istituzionali e progressive stratificazioni normative. In questa traiettoria di lunga durata, il passaggio dalla Comunità europea di difesa alla Politica estera e di sicurezza comune e, infine, alla Politica di sicurezza e di difesa comune, rappresenta non tanto una discontinuità, quanto piuttosto un’evoluzione graduale verso una cooperazione rafforzata nel settore più sensibile della sovranità statale. Il primo contenitore di tale transizione fu l’Unione dell’Europa Occidentale – UEO, rinnovata nel 1954 attraverso la modifica del Trattato di Bruxelles. La UEO si presentava come un’alleanza militare regionale, formalmente autonoma dalla NATO ma fortemente dipendente dalle sue strutture strategiche. Essa incorporava, in forma attenuata e meno ambiziosa, alcune delle funzioni previste dal Trattato CED, offrendo alla Francia una via alternativa che evitasse la piena sovranazionalità, ma garantisse un minimo coordinamento nel campo della difesa. Tuttavia, a dispetto delle sue potenzialità, la UEO rimase a lungo un’istituzione dormiente, priva di capacità operativa e di reale incidenza politica. Fu solo negli anni Novanta, con la fine della Guerra fredda e il conseguente mutamento del paradigma di sicurezza europeo, che la questione della difesa comune tornò con rinnovata urgenza. L’impossibilità dell’Unione Europea di rispondere in modo efficace alle crisi balcaniche, così come la crescente esigenza di rafforzare il proprio profilo internazionale, portarono alla graduale estensione delle competenze comunitarie in materia di politica estera. Il Trattato di Maastricht del 1992 sancì formalmente la nascita della PESC, inserita come secondo pilastro dell’architettura dell’Unione, con modalità intergovernative che riflettevano la persistente reticenza degli Stati membri a condividere le competenze militari in senso stretto. In tale quadro, la Dichiarazione di Petersberg del 1992 rivestì un ruolo decisivo, poiché attribuì alla UEO – e in prospettiva all’Unione – la facoltà di condurre operazioni umanitarie, di mantenimento della pace e gestione delle crisi, delineando le cosiddette “missioni di Petersberg”. Questo passaggio segnò l’ingresso della dimensione operativa nel vocabolario dell’Unione, aprendo la strada a una nuova stagione di politiche di sicurezza basate non più solo sulla dissuasione, ma sull’intervento e la proiezione esterna. Il punto di svolta si ebbe tuttavia alla fine degli anni Novanta, con il vertice franco-britannico di Saint-Malo del 1998. In quell’occasione, Francia e Regno Unito – tradizionalmente divisi sulla questione della difesa europea – riconobbero la necessità di dotare l’Unione di una “capacità autonoma di azione, basata su forze militari credibili”. Questo riavvicinamento politico diede slancio alla creazione della Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD), formalizzata nel Consiglio europeo di Colonia del 1999 e consolidata negli anni successivi attraverso l’istituzione di nuove strutture militari e civili, come il Comitato politico e di sicurezza (COPS), il Comitato militare dell’UE – EUMC) e lo Stato maggiore dell’UE – EUMS. La vera consacrazione giuridica della difesa comune europea giunse con il Trattato di Lisbona del 2007, entrato in vigore nel 2009. Con esso, la PESD fu integrata nella Politica di sicurezza e di difesa comune, divenendo parte integrante dell’azione esterna dell’Unione. Il trattato introdusse, tra le altre innovazioni, la clausola di difesa reciproca che obbliga gli Stati membri ad assistenza mutua in caso di aggressione armata, e la possibilità di avviare forme di cooperazione strutturata permanente, finalizzate a sviluppare sinergie e capacità comuni tra gli Stati membri più volenterosi e capaci. Il progressivo superamento della UEO, la cui operatività fu formalmente sospesa nel 2011, completò il passaggio da un modello di difesa intergovernativo e limitato a uno spazio europeo di sicurezza potenzialmente integrato. Tuttavia, nonostante i rilevanti avanzamenti normativi e istituzionali, la PSDC continua a soffrire di un deficit politico-strategico, legato all’assenza di una visione condivisa del ruolo dell’Europa nel mondo, alla frammentarietà delle politiche nazionali in materia di difesa e alla dipendenza strutturale dalla NATO per le capacità di proiezione. In questa lunga transizione, ciò che emerge con chiarezza è la tensione costante tra ambizione e prudenza, tra volontà di unità e salvaguardia delle prerogative statali. La costruzione di una vera difesa comune resta, ancora oggi, un orizzonte in divenire, ma il suo cammino – lento, discontinuo, ma irreversibile – testimonia la progressiva trasformazione dell’Unione da attore economico a potenza normativa, capace di prefigurare, nel tempo, una propria identità strategica autonoma e coerente.

La politica europea di sicurezza e difesa nel XXI secolo

Nel XXI secolo, la politica di sicurezza e di difesa dell’Unione Europea si è progressivamente strutturata in un sistema articolato, capace di coniugare dimensione civile e militare, strumenti preventivi e operativi, e una visione olistica della sicurezza fondata su stabilità, cooperazione regionale e multilateralismo efficace. Sebbene ancora lontana da una piena autonomia strategica, l’Unione ha sviluppato una capacità di intervento significativa, testimoniata da un crescente numero di missioni civili e militari condotte in contesti extraeuropei, dalla creazione di un’architettura istituzionale specializzata e dalla progressiva maturazione di una dottrina europea della sicurezza. Punto di riferimento fondamentale è rappresentato dalla Strategia Europea in materia di Sicurezza (European Security Strategy – ESS), elaborata nel 2003 sotto la guida dell’Alto Rappresentante Javier Solana. Il documento, intitolato Un’Europa sicura in un mondo migliore, identificava per la prima volta le principali minacce alla sicurezza dell’Unione – dal terrorismo internazionale alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, dai conflitti regionali alla criminalità organizzata – e proponeva una visione integrata della sicurezza, fondata sull’interconnessione tra stabilità interna e responsabilità globale. La strategia ribadiva con chiarezza il primato del multilateralismo, della cooperazione con le Nazioni Unite e della diplomazia preventiva quale strumento prioritario della politica estera europea. Nel 2008, il Consiglio europeo approvò una relazione sull’attuazione della strategia, riconfermando i principi ispiratori del 2003, ma aggiornandone la cornice analitica. Nuove minacce erano nel frattempo emerse con forza, come la sicurezza informatica, l’approvvigionamento energetico e i cambiamenti climatici, considerati veri e propri “moltiplicatori di instabilità”. La relazione sottolineava l’urgenza di un’Europa più capace, più coerente e più attiva, richiamando la necessità di rafforzare le capacità civili e militari, migliorare la rapidità di intervento, investire nella formazione e nello scambio di intelligence, e dotarsi di una base industriale della difesa solida e competitiva. Dal punto di vista operativo, la PSDC ha dato vita a numerose missioni sul terreno, che spaziano da interventi civili di state-building e formazione di polizia a operazioni militari vere e proprie. Esemplari, in tal senso, sono le missioni EUFOR Althea in Bosnia-Erzegovina, EU NAVFOR Atalanta contro la pirateria al largo della Somalia, o le missioni civili in Ucraina – EUAM) e in Mali – EUCAP e EUTM. A testimonianza della crescente proiezione esterna dell’Unione, va ricordato che, ad oggi, più di 30 missioni civili e militari sono state autorizzate, in contesti che vanno dal Caucaso al Golfo di Guinea, dal Sahel all’Asia centrale. Sul piano delle capacità, la costituzione dei Battlegroups – forze multinazionali di pronto intervento pronte a essere dispiegate entro dieci giorni – ha rappresentato un passo importante, pur rimanendo finora un potenziale in larga parte inutilizzato. Più incisiva si è rivelata l’Agenzia europea per la difesa, istituita nel 2004, che promuove progetti comuni di ricerca, sviluppo tecnologico e procurement nel settore della difesa. L’iniziativa PESCO, lanciata nel 2017, ha inoltre inaugurato una nuova fase di cooperazione rafforzata tra 25 Stati membri, mirata a sviluppare congiuntamente sistemi, strumenti e capacità, con l’obiettivo di ridurre la frammentazione e aumentare l’interoperabilità. Tuttavia, permangono significativi limiti strutturali e politici. Il processo decisionale resta fortemente condizionato dall’unanimità, rallentando l’assunzione di decisioni tempestive in caso di crisi. La mancanza di un quartier generale operativo permanente, l’assenza di una cultura strategica realmente condivisa e la dipendenza da capacità esterne – in particolare della NATO e degli Stati Uniti – pongono interrogativi sulla reale autonomia dell’Unione nel fronteggiare minacce complesse. A ciò si aggiunge la perdurante eterogeneità degli impegni nazionali in materia di spesa militare, con divari che riflettono divergenze storiche e culturali difficilmente colmabili nel breve periodo. In tale scenario, si fa strada una nuova consapevolezza: la difesa europea non può essere concepita in modo estratto o tecnocratico, ma necessita di un ancoraggio politico forte, di una visione condivisa del ruolo dell’Europa nel mondo e di una pedagogia della responsabilità comune. La sfida del XXI secolo non è solo quella di costruire capacità, ma di dotarsi di un ethos strategico coerente con i valori fondativi dell’Unione: pace, dignità, solidarietà, sostenibilità. Solo una difesa che sia realmente al servizio del diritto internazionale e della sicurezza umana potrà rispondere all’ideale originario di un’Europa garante della pace e promotrice di un ordine mondiale più giusto.

Prospettive strategiche: tra autonomia e alleanze

Nel tempo presente, segnato dal ritorno di una conflittualità ad alta intensità nel cuore dell’Europa e dal progressivo indebolimento dell’ordine multilaterale post-1945, la questione dell’autonomia strategica dell’Unione Europea assume un rilievo inedito. L’aggressione russa all’Ucraina, le tensioni nel Mediterraneo allargato, la vulnerabilità degli approvvigionamenti energetici e delle infrastrutture digitali, così come la ridefinizione delle priorità geopolitiche statunitensi, impongono all’Unione un ripensamento profondo del proprio posizionamento internazionale e della natura delle sue alleanze. Il concetto di autonomia strategica, lungi dal costituire una dichiarazione d’indipendenza dall’Alleanza Atlantica, si configura piuttosto come un imperativo politico e operativo per garantire all’Europa la capacità di agire con coerenza, responsabilità e rapidità in scenari in cui l’interesse collettivo europeo sia direttamente in gioco. Non si tratta, dunque, di sostituire la NATO, ma di rafforzare la componente europea della sicurezza transatlantica, dotandola di strumenti credibili, di una governance coesa e di un’anima politica che ne leghi l’efficienza all’orizzonte dei valori fondanti dell’Unione. Tuttavia, l’affermazione di un’autonomia strategica credibile richiede l’attraversamento di soglie ancora irrisolte: in primo luogo, la definizione di una cultura strategica comune tra Stati membri, oggi ancora divisi da percezioni divergenti delle minacce e da storie militari disomogenee. L’Est Europa guarda a Mosca con angoscia storica, il Sud proietta le sue inquietudini verso l’instabilità africana e mediorientale, mentre l’Ovest talora fatica a integrare entrambe le visioni in una sintesi operativa. Solo un paziente lavoro di tessitura diplomatica e di convergenza politico-culturale potrà generare una consapevolezza condivisa della sicurezza come bene comune. In secondo luogo, l’autonomia implica un rafforzamento deciso delle capacità materiali e industriali dell’Europa. Il tema dell’interoperabilità, dell’approvvigionamento congiunto, della standardizzazione dei sistemi d’arma e dello sviluppo di tecnologie dual use richiede un’azione concertata e lungimirante. In questo senso, la PESCO, il Fondo Europeo per la Difesa, l’Agenzia europea per la difesa e l’iniziativa Strategic Compass rappresentano passi importanti, ma ancora parziali, verso una vera sovranità tecnologica e produttiva. L’Europa non può rimanere ostaggio di dipendenze strategiche nei settori chiave della difesa, né rinunciare a coltivare una propria base industriale competitiva e resilientemente autonoma. Ma vi è una terza dimensione, forse la più delicata: quella della legittimità politica. Una difesa comune europea, per essere sostenibile, deve fondarsi su un solido patto tra istituzioni e cittadinanza. In un contesto di crescente sfiducia verso le élite e di fragilità del consenso democratico, è essenziale promuovere un discorso pubblico trasparente, formativo e pluralista sulla necessità di una politica europea di sicurezza. L’idea di una “difesa dell’Europa” deve emanciparsi da logiche esclusivamente tecnocratiche o emergenziali e diventare parte integrante della visione civica e culturale del progetto europeo. Solo una cittadinanza consapevole può sostenere lo sforzo collettivo che l’autonomia strategica richiede. Nondimeno, il principio di alleanza resta irrinunciabile. L’Unione Europea deve continuare a investire nella complementarità con la NATO, nella cooperazione strutturata con le Nazioni Unite, nell’interazione con le organizzazioni regionali e nei partenariati strategici globali. L’autonomia non è isolamento: è responsabilità. È la capacità di offrire un contributo proprio alla stabilità internazionale, nel rispetto del diritto internazionale, nella fedeltà ai valori di dignità, giustizia e solidarietà. In tal senso, l’Europa non può che aspirare a diventare un polo di equilibrio, un promotore di pace, un custode dell’ordine basato sulle regole. Infine, occorre collocare la questione della difesa comune nel più ampio orizzonte di una governance globale in transizione. Le sfide del nostro tempo – climatiche, sanitarie, digitali, migratorie – sono inseparabili dalle questioni di sicurezza. La difesa europea, se vuole essere all’altezza della propria epoca, non può ridursi a dimensione tecnica o militare, ma deve integrarsi in una visione ecologica, umana e sistemica della sicurezza, che metta al centro le persone, le comunità e la sostenibilità del vivere. In ciò risiede forse la vera originalità dell’Europa: non nell’imitazione delle grandi potenze tradizionali, ma nella capacità di trasformare la sicurezza in uno strumento di cooperazione, di mediazione e di civiltà.