Papa Leone XIV non smantella Traditionis Custodes né cede alla pressione dei fronti tradizionalisti più militanti. Concede invece ciò che più manca oggi nella Chiesa: tempo, discernimento e responsabilità episcopale. Le dispense biennali sul rito tridentino non sono un ritorno al passato, ma un tentativo di disinnescare una guerra ideologica che ha usato la liturgia come arma politica.
C’è un equivoco che attraversa gran parte del dibattito sulla Messa tridentina: l’idea che la questione sia liturgica. Non lo è più da tempo. È diventata identitaria, simbolica, ideologica. Ed è proprio per questo che Papa Leone XIV ha scelto di non “ribaltare” Traditionis Custodes, ma nemmeno di irrigidirla ulteriormente. Nessuna restaurazione, nessuna vendetta. Solo una linea di governo sobria, ecclesiale, e — per molti versi — disarmante.
Le parole riferite dal nunzio Miguel Maury Buendía ai vescovi britannici vanno lette con attenzione: Leone XIV non abroga il motu proprio di Francesco, riconferma che il rito romano riformato resta l’unica espressione normativa della lex orandi, ma consente ai vescovi di chiedere dispense biennali motivate. Non è una concessione ai nostalgici, è un atto di fiducia nella responsabilità dei pastori locali. E, insieme, una presa di distanza da ogni automatismo ideologico.
Chi sperava in una “rivincita” post-francescana resta deluso. Chi temeva una stretta punitiva resta smentito. Leone XIV si colloca altrove. Non governa la Chiesa come un campo di battaglia tra fazioni, ma come un corpo ferito dalla polarizzazione. E individua il vero problema non nel latino o nel volgare, ma nell’uso politico della liturgia.
Il Papa lo ha detto con chiarezza: la Messa — qualunque forma assuma — è stata trasformata in strumento di lotta. Non luogo di comunione, ma pretesto per affermare identità contrapposte. Da una parte chi ha usato il rito tridentino come segno di resistenza dottrinale e talvolta di ostilità al Concilio; dall’altra chi ha tollerato, se non incoraggiato, celebrazioni postconciliari sciattamente creative, incapaci di custodire il senso del mistero. In mezzo, il popolo di Dio, spesso disorientato.
Le dispense biennali non sono dunque un cedimento, ma un argine. Servono a evitare due derive opposte: lo scisma strisciante e la repressione cieca. Servono soprattutto a riportare la questione là dove deve stare: nella comunione ecclesiale, non nel braccio di ferro mediatico.
Non è casuale che Leone XIV abbia concesso personalmente al cardinale Burke di celebrare in San Pietro. Un gesto letto da molti come “apertura”, ma che in realtà è un segnale più sottile: nessuno è escluso a priori, ma nessuno detta la linea. L’autorità del Papa non si esercita cedendo alle pressioni, bensì sottraendo ossigeno alla radicalizzazione.
Il punto decisivo è forse quello che più disturba i militanti di entrambi i fronti: Leone XIV non vuole risolvere il conflitto scegliendo una parte. Vuole svuotarlo. Parla di abusi liturgici nella Messa riformata, di necessità di maggiore riverenza, di recupero del silenzio, del latino, della bellezza — tutte cose pienamente previste dal Vaticano II. In altre parole: se la liturgia postconciliare fosse celebrata come la Chiesa chiede, molta della nostalgia per il passato perderebbe forza.
Questo è il vero terreno su cui il Papa intende giocare la partita. Non il ritorno alla “forma straordinaria” come bandiera identitaria, ma la conversione della forma ordinaria da prodotto funzionale a atto di adorazione. È una linea esigente, che scontenta chi vorrebbe soluzioni rapide e slogan riconoscibili.
Per Mediafighter, il nodo è evidente: la liturgia è diventata uno dei campi privilegiati della guerra culturale intra-ecclesiale. E come in ogni guerra culturale, la verità è la prima vittima. Leone XIV sembra averlo capito: non spegne il conflitto con un decreto, ma lo priva della sua carica ideologica. Resta da vedere se nella Chiesa — soprattutto in quella più rumorosa — ci sarà qualcuno disposto a seguirlo su questa strada più difficile, ma anche più evangelica.
