Nel lessico politico contemporaneo, segnato da inflazione terminologica e frequente ambiguità semantica, il concetto di dignitocrazia emerge come una proposta innovativa e insieme antica, capace di rifondare il paradigma del potere su basi antropologiche, etiche e relazionali. Con tale termine si intende una forma di organizzazione del potere pubblico e della convivenza collettiva che assume la dignità della persona umana quale principio fondativo, criterio ordinatore e fine ultimo dell’azione politica, giuridica e sociale.

La dignitocrazia si propone, dunque, non come mera alternativa alla democrazia liberale, né come sua semplice riformulazione, bensì come suo compimento, ove la centralità dell’individuo non sia ridotta alla sola titolarità formale del diritto di voto, ma si esprima in una piena partecipazione alla vita pubblica in quanto portatore di una dignità intrinseca, riconosciuta, protetta e promossa da ogni istituzione. Essa si radica, perciò, in una visione antropologica integrale, che rifiuta la riduzione dell’uomo a cifra funzionale o attore del consumo, e lo riconosce quale essere personale, relazionale, libero e spiritualmente aperto alla trascendenza. Tale proposta si fonda su una genealogia che affonda le sue radici nella più profonda tradizione.

Fin dalla sua definizione classica, la persona è stata intesa – secondo la celebre formulazione boeziana – come “substantia individua naturae rationalis”, ossia sostanza individuale di natura razionale. Ma è solo nella progressiva maturazione del pensiero cristiano, e poi del personalismo moderno, che la dignità è emersa come concetto-chiave della comprensione dell’umano. La Dignitas Infinita (2024), raccogliendo questo filo millenario, afferma con forza che ogni essere umano è “portatore di una dignità infinita, inalienabile, fondata nel suo stesso essere, al di là di ogni circostanza”. In questo orizzonte, la dignitocrazia si configura come l’architettura istituzionale coerente con tale assioma antropologico.

Essa afferma che ogni potere è legittimo solo in quanto volto alla tutela effettiva della dignità di ogni persona; che ogni diritto trova il suo fondamento nella realtà ontologica della persona umana, e non nella concessione statuale o nel consenso delle maggioranze; che ogni decisione politica, legislativa o economica deve essere misurata, prima che in termini di efficacia o efficienza, in base alla sua conformità al rispetto e alla promozione della dignità. Questa impostazione non implica una fuga nell’idealismo, né un appiattimento etico del politico. Al contrario, presuppone una riformulazione profonda del realismo politico, orientandolo non alla conservazione dei rapporti di forza, ma alla costruzione di un ordine giusto, in cui la forza della legge non sia mai scissa dalla legge della giustizia.

La dignità diviene, allora, la misura interiore della legittimità, il parametro etico della legalità, l’anima del diritto. Ma per comprendere appieno il significato di questa linea di pensiero politico, occorre soffermarsi sul significato profondo di “dignità”. Essa non è, come spesso si è tentati di intendere, un attributo sociologico, né un valore assegnato da un’autorità. È invece ciò che appartiene originariamente all’essere umano in quanto tale, per il solo fatto di essere persona. È una qualità ontologica, non funzionale; assoluta, non graduabile; universale, non relativa a culture o epoche. È questo che distingue la concezione cristiana e personalista della dignità da altre visioni parziali: essa è fondamento, non conseguenza; principio, non prodotto; realtà, non costruzione.

La dignitocrazia, quindi, nasce da un duplice movimento: da un lato, il riconoscimento della dignità come fondamento del diritto e della politica; dall’altro, la necessità di configurare istituzioni capaci di rispettare, proteggere e promuovere questa dignità in tutte le sue espressioni – dalla vita nascente alla condizione dei migranti, dalla tutela dei poveri alla cura dell’ambiente, dall’educazione alla giustizia sociale. Questo paradigma si contrappone a due deviazioni contemporanee.

La prima è la tecnocrazia, che riduce la governance a mera amministrazione dell’efficienza, marginalizzando la dimensione etica.

La seconda è la democrazia procedurale, che, pur salvaguardando la forma, spesso abdica al contenuto, accettando che decisioni contrarie alla dignità possano essere giustificate da maggioranze temporanee o da interessi dominanti. La visione proposta si colloca oltre entrambi questi modelli: essa non rifiuta la tecnica né la democrazia, ma le assume criticamente, subordinandole alla centralità dell’umano. In tal senso, si potrebbe dire che la dignitocrazia è una forma di post-democrazia etica, in cui il principio dell’uguaglianza formale è trasceso dal principio del rispetto sostanziale, e in cui la libertà politica si radica nella verità dell’umano. Essa implica, perciò, una trasformazione profonda della cultura politica, una nuova educazione civica e spirituale, una rinnovata alleanza tra coscienza e istituzione.

Dignità e potere: oltre la tecnocrazia e la democrazia formale

La crisi dei sistemi democratici contemporanei, segnata da crescente disaffezione popolare, da disuguaglianze strutturali e da un senso diffuso di impotenza istituzionale, rende evidente la necessità di ripensare in profondità le categorie del potere politico e della sua legittimazione. In tale scenario, la dignitocrazia si offre come paradigma alternativo e rigenerante, che restituisce alla politica la sua vocazione originaria: servire la persona umana nella sua dignità costitutiva e promuovere condizioni che rendano effettiva la giustizia. La forma democratica, pur rappresentando un importante progresso nella storia della civiltà, rischia oggi di ridursi a una procedura svuotata di contenuto valoriale, spesso dominata dalla logica della maggioranza numerica, del consenso immediato o della spettacolarizzazione del dibattito pubblico.

Il governo della dignitas, senza contrapporsi alla democrazia, intende invece radicalizzarne il senso profondo, sottraendola alla deriva plebiscitaria e populista e rifondandola sull’asse etico-antropologico della dignità. In tale visione, il potere non si legittima solo attraverso il consenso formale, ma attraverso la sua capacità di riconoscere, custodire e promuovere la dignità di ogni persona, specialmente dei più vulnerabili. L’autorità politica, quindi, non si fonda semplicemente sulla rappresentanza, ma sull’effettivo servizio reso alla persona nella sua interezza: spirituale, corporea, relazionale e storica. Non basta che le leggi siano approvate legittimamente; esse devono essere anche giuste, ossia coerenti con il rispetto integrale della dignità umana. In questa prospettiva, la dignitocrazia critica frontalmente la deriva tecnocratica che ha segnato molte istituzioni nazionali e sovranazionali negli ultimi decenni. Il potere, sempre più concentrato in organismi tecnici, esperti e sistemi automatizzati, tende a eludere il confronto etico e a neutralizzare la responsabilità politica.

La governance viene separata dal governo, la competenza dalla giustizia, l’efficienza dalla dignità. Ma ogni sistema che non integra la dimensione etica e relazionale dell’umano finisce per produrre esclusione, ingiustizia, spersonalizzazione. Si propone dunque una diversa comprensione della sovranità. Essa non è esercizio assoluto di potere, né volontà collettiva illimitata, ma responsabilità orientata al bene comune, inteso come realizzazione effettiva della dignità di ogni membro della comunità. In questo senso, la sovranità è sempre relativa alla persona e condizionata dalla sua inviolabilità. Il potere è giusto solo se si autolimita, solo se riconosce che esiste un principio superiore – la dignità – che lo fonda e lo giudica.

La stessa nozione di cittadinanza, nella prospettiva dignitocratica, si trasforma: non è più mero status giuridico o funzione civica, ma partecipazione responsabile a una comunità che riconosce la centralità dell’umano. Il cittadino non è solo titolare di diritti, ma anche soggetto chiamato a difendere la dignità altrui, a cooperare alla giustizia e a costruire uno spazio pubblico accogliente, inclusivo e armonico. Il cuore del pensiero proposto è dunque una democrazia per la dignità, dove i diritti fondamentali non sono negoziabili, dove la partecipazione è orientata alla giustizia sostanziale e non solo alla rappresentanza formale, dove l’autorità è esercizio di custodia e non di dominio. In essa, il potere è giusto non perché conforme alla procedura, ma perché conforme alla persona. Tale visione implica anche una rilettura delle istituzioni giuridiche.

La legge, in quanto espressione della volontà popolare, deve sempre ispirarsi a un ethos superiore: quello della persona come fine, e mai come mezzo. La legge che contraddice la dignità – anche se approvata secondo regole formali – è priva di giustizia. Come ricorda la Dignitas Infinita, «senza un riferimento ontologico alla dignità, il riconoscimento dei diritti umani oscilla in balìa di differenti ed arbitrarie valutazioni». Nel mondo contemporaneo, segnato da disgregazioni identitarie e da nuove forme di discriminazione, la dignitocrazia si impone dunque come paradigma di resistenza e di rinascita. Essa non si fonda sulla paura, ma sulla fiducia nella persona umana come essere relazionale, dotato di coscienza e capace di bene. La politica torna ad essere cura dell’umano, e il diritto una lingua della giustizia.