Tra i testi più emblematici dell’Umanesimo rinascimentale, l’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola si staglia come uno dei vertici più alti dell’antropologia filosofica occidentale. Pico, nell’introdurre la propria Oratio, descrive la creazione dell’uomo come un atto di straordinaria generosità e audacia da parte del Creatore. Dopo aver ornato l’universo con ogni grado dell’essere – angeli, corpi celesti, animali – Dio si accorge che manca un contemplatore, un essere capace di intendere, amare e ammirare la bellezza della sua opera. E tuttavia, non trovando un modello prestabilito, non disponendo di una collocazione assegnata né di una natura fissa da attribuire all’uomo, Dio decide di donargli la libertà radicale: lo pone al centro del mondo, e gli affida la possibilità di farsi ciò che vuole, secondo la propria volontà. Così l’uomo, scultore di sé stesso, può «degenerare negli esseri inferiori» o «rigenerarsi negli esseri superiori». La dignità non è quindi solo un dato ontologico, ma una vocazione dinamica, una tensione verso la somiglianza con Dio, che esige esercizio morale, consapevolezza spirituale e responsabilità sociale.

Questa concezione umanistica, che fa della libertà il cardine della dignità, trova un eco profondo nella recente Dichiarazione Dignitas Infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede. Essa riafferma, alla luce della Rivelazione cristiana e della riflessione teologico-antropologica contemporanea, che la dignità dell’essere umano è «infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, al di là di ogni circostanza». L’uomo è degno non per le sue qualità, per le sue funzioni o per il suo contributo sociale, ma perché è persona: sostanza individuale di natura razionale, chiamata a conoscere, amare e scegliere liberamente il bene. 

Proprio nel suo punto più alto, la visione antropologica di Pico sembra anticipare questa affermazione magisteriale: l’uomo non ha un’essenza data ma un compito da realizzare; egli è, in quanto uomo, l’unico essere capace di diventare pienamente se stesso attraverso la libertà. È qui che la dottrina della dignitas infinita offre una lettura rinnovata del pensiero umanistico: se la libertà è lo strumento per la realizzazione della dignità, questa non può essere compresa solo come un’autodeterminazione individualistica, ma come vocazione relazionale all’amore, alla giustizia, alla custodia dell’altro e del creato. La dignità non è un diritto che si rivendica in modo astratto, ma una verità da incarnare nella concretezza dell’agire umano.

È per questo che Dignitas Infinita distingue con finezza tra dignità ontologica, dignità morale, dignità sociale e dignità esistenziale. Mentre la dignità ontologica è inalienabile e permanente, le altre dimensioni esprimono le modalità storiche in cui essa può essere riconosciuta o, tragicamente, negata. In tale distinzione risuona l’eco del pensiero di Pico, che descrive l’uomo come capace di decadere o elevarsi, di vivere in modo degno o indegno, della sua vocazione divina. Ma la dignità resta, anche nel peccato, anche nella miseria, anche nell’umiliazione sociale: essa è cifra dell’essere, non del fare. E tuttavia, proprio per questo, essa interpella ogni coscienza, ogni istituzione, ogni potere, a riconoscerla, promuoverla, difenderla. Questa responsabilità è tanto più urgente nel nostro tempo, segnato da molteplici violazioni della dignità umana: povertà estrema, migrazioni forzate, guerre, tratta di esseri umani, violenze di genere, discriminazioni di ogni tipo. In ciascuna di queste situazioni, non è soltanto lesa la dignità morale o sociale della persona, ma viene contraddetto, nel suo fondamento, il principio stesso della sua umanità intangibile. L’umanesimo di Pico della Mirandola – nella fiducia posta nella capacità dell’uomo di elevarsi oltre ogni determinismo – e la dottrina della dignitas infinita – nella solenne affermazione dell’inviolabilità della persona – convergono nell’attestare una verità insopprimibile: il grado di civiltà di un’umanità si misura nel modo in cui essa si prende cura dei suoi membri più fragili. Nel dispiegarsi della riflessione cristiana sulla dignità, ciò che appare centrale è il riconoscimento di un fondamento teologico-ontologico che precede ogni costruzione culturale o giuridica. La Dignitas Infinita, nel richiamarsi alla Rivelazione, insiste sul fatto che la dignità è impressa nell’essere umano non da concessioni esterne, ma da un atto creatore che lo costituisce a immagine e somiglianza di Dio. Questa somiglianza non si esaurisce nella razionalità, bensì abbraccia l’interezza della persona: anima e corpo, intelletto e affettività, relazionalità e apertura al trascendente. Come già aveva evidenziato il pensiero patristico, l’“immagine” costituisce un dato originario, ontologicamente fondativo, mentre la “somiglianza” rappresenta un compito progressivo, una tensione aperta al compimento, che esige la libertà, l’amore, la giustizia. In questa prospettiva, il pensiero di Pico della Mirandola si colloca – pur nella sua declinazione laica e umanistica – all’interno di una visione dinamica della dignità: l’essere umano, creato senza una forma determinata, è chiamato a partecipare attivamente alla propria realizzazione, divenendo artefice del proprio volto spirituale. La sua libertà non è assoluta nel senso dell’autonomia radicale, ma nel senso più profondo della autopoiesis spirituale: l’uomo è l’unico tra le creature che può scegliere se vivere in conformità alla propria vocazione divina o rinnegarla. Nella sua Oratio, Pico fa dire a Dio: «Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu possa foggiarti nella forma che preferirai». È in questo atto di affidamento radicale che risplende, paradossalmente, la grande fiducia del Creatore nell’umano. La Dignitas Infinita interpreta questa possibilità come fondamento di un’etica della responsabilità. Essa riconosce che l’essere umano, sebbene porti in sé una dignità intangibile, può vivere in modo contrario ad essa. È ciò che il documento definisce dignità morale, legata all’esercizio libero della coscienza. Quando l’uomo agisce contro il bene, contro la verità, contro la giustizia, egli ferisce questa dimensione morale della dignità. Tuttavia, egli non perde mai la sua dignità ontologica, che resta come segno indelebile della sua origine divina. È questa verità a fondare la possibilità della redenzione, della conversione, del perdono, della speranza in una rigenerazione sempre possibile. È interessante notare come la filosofia kantiana, sebbene collocata in un contesto post-metafisico, risuoni in parte con queste istanze. Per Kant, l’essere umano possiede dignità in quanto fine in sé e mai soltanto mezzo. Ma è la Rivelazione cristiana a portare a compimento questa intuizione, fondandola non nella sola ragione, bensì nella vocazione alla comunione con Dio: «L’aspetto più sublime della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio». Tale destinazione escatologica rende ogni vita degna, anche quando sembra spezzata, inutile, sofferente. E proprio per questo la dignità va «riconosciuta al di là di ogni circostanza», anche in presenza di malattia, povertà, errore, disabilità o peccato. Alla luce di ciò, l’antropologia cristiana si configura come una grammatica della dignità, in cui l’essere umano è soggetto di diritti perché portatore di un valore incommensurabile, non misurabile in termini di efficienza, produttività o apparenza. In un tempo in cui il rischio della scartabilità si insinua in molte dinamiche sociali riaffermare il primato della persona significa riaffermare la centralità della dignità ontologica come fondamento non negoziabile. È questo anche il cuore del messaggio sociale: non c’è autentica giustizia, non c’è pace, non c’è democrazia che possa sussistere se non si fonda su un’idea chiara, stabile, universale della dignità dell’essere umano. Come ricorda la Dignitas Infinita, il rispetto incondizionato della dignità è la condizione necessaria perché ogni diritto umano sia riconosciuto come tale e non come mera concessione storica o convenzione sociale. Se si perde il riferimento ontologico, la dignità diventa una moneta fragile, sottoposta all’arbitrio del potere, del mercato, dell’ideologia. Proprio per evitare tale rischio, è necessario riscoprire una visione integrale della persona, capace di tenere insieme il fondamento metafisico, la libertà morale e l’orizzonte sociale della dignità. Questo compito è, oggi più che mai, affidato alle università, alla diplomazia culturale, ai costruttori di ponti tra le culture e i popoli.

Dignità e bene comune: verso una nuova responsabilità umana universale

Oggi si impone l’urgenza di un umanesimo della responsabilità, capace di tradurre il principio della dignità in ethos collettivo e in paradigma globale. In questo senso, la dignità non può essere più pensata solo come fondamento statico dell’umano, bensì come dinamismo trasformatore delle relazioni, delle istituzioni, delle culture. La Dignitas Infinitasottolinea con forza che il riconoscimento della dignità di ogni persona costituisce la base irrinunciabile per la costruzione di società giuste, pacifiche e autenticamente umane. La dignità non è un concetto etico isolato, ma il criterio ispiratore di ogni agire politico, giuridico ed economico. Essa esige che la libertà individuale sia coniugata con la giustizia sociale, che i diritti siano accompagnati dai doveri di solidarietà, e che la fraternità non sia relegata a ideale utopico, ma divenga architettura concreta di ogni convivenza civile. È in questa prospettiva che la tradizione del pensiero cattolico propone il concetto di bene comune, non come semplice somma dei beni individuali, ma come quell’insieme di condizioni che permettono ad ogni persona, e ad ogni comunità, di realizzarsi pienamente nella dignità che le è propria. Il bene comune si fonda sul primato della persona, ma richiede una visione relazionale dell’umano, in cui la cura dell’altro, la custodia della vita e l’impegno per la giustizia siano criteri irrinunciabili dell’agire sociale.

Pico della Mirandola, pur collocandosi in un contesto storico e culturale differente, sembra intravedere questa tensione tra individualità e universalità. L’uomo, nel suo essere posto al centro del mondo, non è solo un soggetto astratto di libertà, ma un ponte tra i regni dell’essere, una soglia metafisica tra natura e spirito. Proprio per questo, egli è chiamato a una responsabilità cosmica, che si estende dalla propria interiorità all’ordine del mondo. L’uomo che si autodetermina, nel pensiero di Pico, è anche colui che contempla, custodisce, agisce con intelligenza e amore verso il creato. In tal senso, la sua dignità è anche una vocazione a edificare armonia tra le creature, a coltivare la bellezza dell’ordine divino nel mondo. Oggi, questa vocazione assume una drammatica attualità, alla luce delle grandi crisi che attraversano l’umanità: mutamenti climatici, disuguaglianze globali, guerre fratricide, nuove forme di schiavitù e sfruttamento. Tutte queste ferite sono, in fondo, ferite della dignità: ogni esclusione, ogni abbandono, ogni violazione dei diritti umani è una smentita concreta del principio che afferma l’inviolabilità dell’umano in quanto tale. Per questo la Dignitas Infinita dedica la sua parte finale alla denuncia profetica di tali violazioni, riconoscendo che la promozione della dignità non è un atto teorico ma un dovere storico, etico e istituzionale. La povertà estrema, ad esempio, non è solo una condizione materiale, ma una umiliazione della dignità ontologica, perché priva la persona delle condizioni minime per esprimere la propria umanità. Analogamente, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento dei minori, la violenza contro le donne, la discriminazione razziale o culturale sono tutte forme di “negazione vivente” della dignità, in cui l’essere umano viene ridotto a oggetto, strumento o scarto. In questo contesto, l’idea di diplomazia della dignità assume una rilevanza crescente. Essa non consiste in un’astratta retorica dei diritti, ma in una pratica concreta di riconoscimento, ascolto e corresponsabilità. Le università, in particolare, sono chiamate a divenire laboratori di dignità, luoghi in cui il sapere si fa sapienza del vivere insieme, e in cui la formazione delle coscienze è orientata non al dominio, ma al servizio del bene comune. In esse, la dignità può essere indagata, argomentata, interiorizzata e poi restituita alla società in forma di azione, di parola pubblica, di trasformazione culturale. La cultura, quando è autentica, non è mai neutra rispetto alla dignità: o la promuove, o la tradisce. In una società che rischia di dimenticare la propria anima, l’università può essere il grembo di una rinascita etica, in cui la dignità non sia ridotta a slogan, ma vissuta come principio generativo di pensiero e di civiltà.

Per una civiltà della dignità: tra eredità umanistica e compito planetario

L’essere umano è un essere vocatus ad altiora, chiamato a oltrepassare sé stesso senza abbandonare ciò che è. Proprio per questo, la dignità non può mai essere ridotta a una condizione acquisita, né subordinata alla funzionalità, all’utilità sociale, alla prestazione. Essa è, per così dire, il “nome proprio” dell’uomo nella sua relazione fondante con l’Assoluto e con gli altri. È ciò che permane anche nella fragilità, nell’errore, nella malattia, nel peccato, nella sofferenza. È ciò che obbliga la coscienza morale, interroga la giustizia politica, ispira la fraternità universale. Oggi, mentre nuove sfide mettono a dura prova il senso del vivere comune – dalla solitudine esistenziale alla polarizzazione ideologica, dall’algoritmizzazione della vita al nichilismo etico – il principio di dignità si impone come stella polare per ogni forma di pensiero e di azione che voglia dirsi autenticamente umana. Il compito è, in fondo, quello di edificare una civiltà della dignità, in cui ogni persona, in ogni fase della vita e in ogni condizione, sia riconosciuta come fine e mai come mezzo, come soggetto e mai come oggetto, come volto e mai come cifra. Una tale civiltà esige alleanze nuove tra saperi, culture e istituzioni. Esige che la diplomazia non sia solo arte della mediazione strategica, ma anche – e soprattutto – esercizio del riconoscimento reciproco, linguaggio del rispetto, architettura della pace. Esige che le università non siano meri luoghi di trasmissione tecnica del sapere, ma cattedrali del senso, dove si apprende non solo a sapere, ma a essere, a convivere, a servire. È qui che l’eredità pichiana mostra tutta la sua attualità. Collocando l’uomo al centro del mondo, Pico non lo divinizza, ma gli affida un compito: rendersi degno della propria vocazione. Questo compito, nella visione cristiana, è sostenuto dalla grazia, illuminato dalla Rivelazione, ma mai imposto: si gioca nella libertà, nella storia, nella coscienza. Così, la dignità, pur essendo fondamento, non è statica: è chiamata a manifestarsi, a crescere, a rifrangersi nella vita morale, sociale, spirituale. La Dignitas Infinita coglie questa dimensione dinamica, mostrando come la dignità possa essere ferita ma non distrutta, oscurata ma non annullata. E proprio da questa irriducibilità nasce l’obbligo morale, giuridico e politico di difenderla sempre, ovunque, in chiunque. Nessuna condizione, nessuna colpa, nessuna inferiorità apparente può giustificare l’ignoranza o il disprezzo della dignità. Non vi è popolo, cultura, religione, classe, genere, età, capacità o limite che possa privare qualcuno di quel valore assoluto che lo rende “immagine vivente dell’invisibile”. Nel tempo delle disgregazioni identitarie e delle derive funzionalistiche, occorre perciò rilanciare un pensiero forte della dignità, capace di fondare le istituzioni democratiche, di orientare le trasformazioni tecnologiche, di ispirare l’economia e la giustizia internazionale. La civiltà della dignità, in questo senso, non è utopia ingenua, ma esigenza radicale. È il compito affidato a ogni generazione che voglia essere all’altezza dell’umano. Ed è la via regale per disinnescare i conflitti, guarire le fratture, generare nuova fiducia. In essa, l’umano è restituito alla sua verità più profonda: non padrone del mondo, ma custode della sua bellezza; non dominatore degli altri, ma fratello e sorella; non misura assoluta delle cose, ma segno vivente dell’Assoluto.