Il patrimonio personalista elaborato dai costituenti – e in modo eminente da La Pira e da Moro – rimane il riferimento imprescindibile per garantire che la Repubblica continui a essere ciò che la Costituzione la chiama a essere: una comunità politica fondata sulla dignità della persona umana e orientata alla sua integrale realizzazione.
La seduta del 9 settembre 1946 della Prima Sottocommissione segna uno dei momenti più alti della riflessione antropologica e giuridica del processo costituente. In questa fase si percepisce con particolare intensità il passaggio dalla nozione liberale di individuo alla concezione personalistica di persona, intesa non come entità astratta e autosufficiente, ma come realtà concreta, relazionale, radicata in una vocazione spirituale e comunitaria che fonda e orienta l’intero impianto costituzionale. La discussione della Sottocommissione rivela che la dignità non può essere trattata come un semplice principio ispiratore, né come una clausola di stile, bensì come l’asse portante dell’edificio giuridico repubblicano: un principio normativo dotato di forza ordinatrice, capace di illuminare la struttura dei diritti, il ruolo dei doveri, la funzione dello Stato e la natura stessa della democrazia. In queste pagine, i costituenti mostrano una maturità straordinaria: comprendono che la dignità non è una formula da inserire nella parte iniziale della Costituzione, ma il criterio antropologico che deve orientare la definizione dei diritti inviolabili, la determinazione delle formazioni sociali, la configurazione della cittadinanza e la tensione verso l’eguaglianza sostanziale. Ciò implica che lo Stato non crei la dignità, ma la riconosca come valore preesistente, e che l’ordinamento non si limiti a garantire libertà formali, ma rimuova gli ostacoli che limitano la persona in tutte le sue dimensioni: spirituale, sociale, economica e politica. L’intera seduta ruota, in realtà, attorno a questa centralità della persona, che emerge dalla dialettica tra le diverse sensibilità politiche e culturali presenti nella Sottocommissione – cristiano-sociali, marxiste, liberali – tutte coinvolte nella ricerca di un fondamento comune che potesse assicurare alla Repubblica una struttura stabile, rispettosa dell’umano e capace di durare nel tempo.
La Pira e Moro: due linee convergenti nella costruzione personalista della dignità
All’interno di questo scenario, l’intervento di Giorgio La Pira costituisce uno dei vertici concettuali della seduta. La Pira non si limita a evocare la necessità di tutelare i diritti della persona: egli propone una vera e propria antropologia costituzionale, in cui la persona è riconosciuta come essere dotato di una vocazione spirituale, radicato in una rete di relazioni costitutive, dalle comunità naturali alle formazioni sociali più articolate. Per La Pira, la persona non è un individuo isolato, ma un essere comunitario, il cui pieno sviluppo è inseparabile dalla responsabilità, dalla solidarietà e dalla partecipazione. Egli delinea così una concezione della dignità che non si esaurisce nel riconoscimento di diritti soggettivi, ma implica la tutela dei luoghi in cui la persona vive, cresce, si educa e si realizza: la famiglia, la scuola, la comunità di lavoro, la società civile. Questo personalismo comunitario introduce nella Costituente l’idea, rivoluzionaria per l’epoca, che la dignità è un valore giuridico relazionale e dinamico, che lo Stato deve riconoscere e non può annullare; un principio che orienta la costruzione del diritto e la definizione delle finalità della Repubblica. Ma è l’intervento di Aldo Moro a dare alla prospettiva personalista la sua forma metodologica compiuta. Moro, infatti, non interviene sul piano delle enunciazioni astratte, bensì su quello del metodo, rivelando una comprensione profonda del nesso tra dignità e ordine costituzionale. Nel documento della seduta, Moro afferma che il «punto essenziale» dei lavori consiste nello «stabilire un piano sistematico» per affrontare i diritti e i doveri in modo rigoroso e ordinato. Questa affermazione, solo in apparenza tecnica, contiene una intuizione di straordinaria profondità: la persona non può emergere da un insieme disordinato di definizioni, né può essere modellata a partire da categorie ideologiche precostituite. Essa necessita di un metodo che ne custodisca la complessità, che impedisca derive polemiche o riduzionistiche, che eviti ciò che lo stesso Moro definisce un aggravarsi dello spirito del dibattito, causato da discussioni etiche o filosofiche “prive di sistemazione” Per Moro, la dignità può essere tradita tanto dalla superficialità quanto dall’astrazione ideologica. Per questo egli insiste affinché l’attenzione rimanga concentrata sui diritti fondamentali «dell’uomo e del cittadino» riconoscendo implicitamente la natura pre-statuale e universale della persona umana. La sua posizione non è una semplice nota di prudenza metodologica: è un vero e proprio atto di fondazione, attraverso cui la dignità diventa criterio di ordine, di verità e di discernimento. Così, mentre La Pira elabora l’antropologia comunitaria della dignità, Moro ne costruisce l’ossatura metodologica, impedendo che la persona venga sacrificata alle polarizzazioni del momento o alle esigenze di sintesi politica. Insieme, essi tracciano il solco che porterà alla formulazione degli articoli 2 e 3 della Costituzione, dove la dignità appare come principio fondativo e la persona come asse attorno a cui ruota l’intero ordine repubblicano.
La dignità come fondamento della Repubblica
La convergenza concettuale tra La Pira e Moro consente alla seduta del 9 settembre 1946 di assumere una portata che va ben oltre la semplice discussione preparatoria: essa rappresenta un momento di fondazione del costituzionalismo personalista italiano. La dignità emerge come nucleo generativo della futura architettura costituzionale, non come un elemento complementare, ma come il principio che dà forma all’intero sistema. La Costituzione viene così concepita come un progetto di civiltà giuridica orientato alla promozione della persona in tutte le sue dimensioni: spirituale, relazionale, sociale, economica e politica. La dignità diventa la chiave per interpretare i diritti inviolabili, per comprendere i doveri di solidarietà, per riconoscere le formazioni sociali, per valorizzare la partecipazione democratica e per correlare libertà ed eguaglianza in una sintesi che supera le tradizioni ideologiche del passato. Alla luce delle sfide contemporanee il messaggio della seduta del 9 settembre 1946 risuona con una forza straordinaria. La dignità che La Pira e Moro contribuiscono a delineare non è fragile né negoziabile, non dipende dal consenso maggioritario né dalle oscillazioni della società: essa è il fondamento oggettivo che la Repubblica è chiamata a riconoscere, proteggere e promuovere.
