«Non uccideteli, ma sparategli nelle gambe». Con queste parole agghiaccianti, il presidente del Kenya William Ruto ha ordinato alla polizia di reprimere le proteste che stanno infiammando il Paese. In un clima di diseguaglianza crescente, brutalità delle forze dell’ordine e silenzi internazionali, la voce di chi resiste – giovani, insegnanti, fedeli – chiede giustizia, non piombo. Ma il potere risponde con le armi.
«Non uccideteli, ma sparategli nelle gambe». La frase pronunciata dal presidente William Ruto non è solo politicamente grave. È moralmente devastante. In un Paese che ha conosciuto il colonialismo, la repressione del monapartitismo, le violenze post-elettorali, e che proprio il 7 luglio ricordava il Saba-Saba del 1990 – giorno di riscatto democratico – queste parole risuonano come un tradimento della memoria collettiva.
Sì, perché il Kenya è oggi attraversato da un grido generazionale che chiede giustizia, equità e ascolto. È la Generazione Z, fatta di studenti, artigiani, giovani disoccupati, precari del commercio informale, piccoli coltivatori urbani. Non sono sovversivi, ma figli e figlie della povertà e della dignità. Invece di una risposta politica, si trovano davanti un presidente che, invece di difendere i cittadini, fornisce istruzioni paramilitari: ferirli, poi ospedalizzarli e infine incarcerarli.
Il paradosso è tutto qui: Ruto, che ama presentarsi come “figlio del popolo”, “cristiano impegnato”, “campione della democrazia africana”, di fronte al dissenso mostra un volto duro, selettivo, privo di empatia. Ha scelto da che parte stare: quella dei manganelli, non del dialogo; quella della sopravvivenza del potere, non della sopravvivenza delle persone.
Nei giorni della commemorazione del Saba-Saba, 31 persone sono morte – tra cui adolescenti e una bambina di 12 anni. I feriti sono centinaia, gli arresti più di 500. Non siamo davanti a una reazione di contenimento, ma a una strategia repressiva. Un’involuzione che stride con ogni principio dello stato di diritto e con la dottrina sociale della Chiesa, che esige sempre la tutela della dignità della persona umana e la mediazione nonviolenta dei conflitti sociali.
L’uccisione dell’insegnante Albert Ojwang, arrestato per aver criticato un capo della sicurezza, torturato e poi fatto passare per suicida, è il segno più inquietante di un potere che ha perso il senso del limite. La generazione giovane lo ha trasformato in simbolo. I suoi occhi sorridenti campeggiano nei cortei: non è un miliziano, ma un educatore. Non è un incendiario, ma una vittima dell’arroganza.
Ruto sembra dimenticare che anche lui, dieci anni fa, era un imputato all’Aia per le violenze post-elettorali del 2007. Il suo nome e quello dell’allora presidente Kenyatta furono associati a più di mille morti. Il processo naufragò per mancanza di testimoni, molti dei quali intimiditi o scomparsi. Nessuno fu assolto, ma tutti fecero finta che fosse finita lì.
La verità è che il Kenya è oggi spaccato. Non da una guerra civile, ma da una disuguaglianza esplosiva, una gioventù tradita, un’élite politica arroccata. La risposta repressiva non è solo immorale. È inefficace. Quando un presidente ordina di sparare ai figli del suo stesso popolo, non rafforza l’ordine: ne mina le fondamenta.
Da missionari e da credenti, non possiamo tacere. La parola evangelica è più che mai attuale: «Tutto ciò che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La Bibbia, non le armi, deve guidare la politica. E la politica, per essere umana e africana, deve essere servizio, non violenza.
Non è troppo tardi. Il Kenya può ancora ascoltare il grido del suo popolo. Ma il primo passo è che chi governa smetta di vedere nei giovani dei nemici, e ricominci a considerarli cittadini. Non bersagli.