Un tesoro che resiste. E che ci giudica
In Francia, come in tutta l’Europa secolarizzata, la vita religiosa sembra diventata un paesaggio sempre più sottile: meno visibile, meno numerosa, meno “necessaria”, almeno agli occhi di chi misura la realtà solo a colpi di grafici e tendenze demografiche. Basta uno sguardo ai numeri diffusi in questi giorni dalla Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia: se nel 2000 erano 66 mila, oggi sono 22 mila. E nel 2045 potrebbero essere meno di 10 mila. L’equivalente di una costellazione che, a poco a poco, spegne le sue stelle.
E allora, come non porsi la domanda che percorre sotterranea l’assemblea della Corref a Lourdes: a cosa servono ancora i religiosi? È una domanda che punge, quasi irriverente. Eppure utile, persino necessaria. Perché quando una vocazione attraversa la prova della riduzione numerica, ciò che rimane è la parte più vera: l’essenziale.
La società di oggi — con le sue accelerazioni continue, le sue app di valutazione, la sua ansia di efficienza — non offre molti luoghi in cui respirare. Non stupisce dunque che aumentino gli uomini e le donne, credenti e non credenti, che si ritirano qualche giorno in un monastero, cercando un silenzio che non sanno più nominare. È un paradosso solo apparente: mentre i chiostri si svuotano, cresce il numero di chi va a bussare alle loro porte.
Il silenzio che cercano non nasce da sé. Ha bisogno di chi lo custodisce.
Di chi prega quando gli altri dormono.
Di chi vive la fedeltà quando il mondo cambia ogni minuto.
Di chi accetta di essere “inutile” secondo i criteri del mercato per essere essenziale secondo quelli del Vangelo.
Senza quei pochi che resistono, la sete di interiorità che attraversa il XXI secolo resterebbe senza casa.
La diminuzione è reale, e non va né negata né banalizzata. I monasteri chiudono, le comunità si assottigliano, l’età media cresce fino a livelli mai visti. La tentazione di “importare vocazioni” da altri continenti ha mostrato tutta la sua fragilità: non si può chiedere a giovani suore africane o asiatiche di reggere da sole comunità di ottuagenarie europee, come se bastasse uno spostamento geografico per risolvere un problema spirituale.
La vita religiosa non si salva con espedienti. Si salva quando torna alla sua sorgente.
Eppure, in mezzo alla crisi, emerge una verità che non può essere ignorata: le comunità che fioriscono non sono quelle che imitano il mondo, ma quelle che ne contraddicono la logica.
Si rialzano i Carmeli; resistono le abbazie cistercensi dove il gregoriano si intreccia al lavoro manuale; attraggono le case dove l’identità è chiara, la vita è piena, il Vangelo non è un “optional”, ma una totalità.
Il paradosso è questo: più il mondo diventa liquido, più a qualcuno serve una roccia.
I giovani che bussano oggi alla vita religiosa non cercano un compromesso, ma un segno. Non chiedono una via di mezzo, ma un “di più”: un vestito che dica chi sono, una regola che orienti, una comunità che non sia la semplice somma dei caratteri individuali. È la sete di radicalità, nel senso più evangelico del termine: andare alla radice.
Ma non basta il fascino dell’abito o la poesia della clausura.
La vita religiosa, per avere futuro, deve rispondere a una domanda ancora più difficile: qual è il vostro carisma oggi?
Cosa dite a un mondo che si è fatto adulto, ferito, disincantato?
Cosa offrite a una Chiesa alle prese con scandali, sfide e fatiche?
È qui che si giocheranno i prossimi decenni: non sulla quantità, ma sulla qualità.
Non sulla sopravvivenza delle opere, ma sulla trasparenza del Vangelo.
La verità è semplice: i religiosi non “servono” perché fanno qualcosa che altri non fanno più. Servono perché ricordano, con la sola loro esistenza, che la vita umana non è definita dalla prestazione, ma dalla presenza.
Che il mondo non tiene in piedi se stesso solo con l’efficienza, ma ha bisogno di gratuità.
Che la fraternità non è un’idea, ma un’arte.
Che la preghiera non è un lusso, ma un respiro.
Sono — davvero — un tesoro da preservare. E non per nostalgia, ma per necessità.
Se si ascolta bene, si scopre che la domanda iniziale — “A cosa servono ancora i religiosi?” — ne nasconde un’altra, più radicale: di che cosa ha sete l’uomo contemporaneo?
E forse la risposta sta proprio nei monasteri che chiudono lentamente le giornate con il canto semplice dei salmi, o nelle comunità apostoliche che portano la luce del Vangelo nelle scuole, negli ospedali, nei margini più oscuri delle città.
Finché nel mondo esisterà qualcuno che, senza nulla chiedere, prega, accoglie, ascolta, lavora nel silenzio e indica una via diversa, la vita religiosa continuerà a servire.
Non perché produce qualcosa.
Ma perché testimonia che l’essenziale non è mai produttivo: è solo vero.
