La giornalista di Perugia ha scelto il suicidio medicalmente assistito, dopo anni di sofferenza. La sua storia interpella coscienze e istituzioni. Ma per la Chiesa, il dolore non può mai giustificare la morte procurata. La risposta è cura, accompagnamento e amore fino alla fine.

La morte di Laura Santi, giornalista umbra di 50 anni affetta da sclerosi multipla progressiva, ha suscitato commozione e attenzione in tutta Italia. Dopo un lungo iter giudiziario, ha ottenuto l’accesso al suicidio medicalmente assistito. Al suo fianco, fino all’ultimo, il marito. A darne notizia è stata l’Associazione Luca Coscioni, che ha anche pubblicato la sua lettera di commiato.

Nel testo, Laura racconta il suo dolore, fisico e psicologico, e motiva la sua scelta come atto di libertà. Una vicenda profondamente umana, che merita rispetto e silenzio. Ma che, proprio per il suo significato pubblico, interpella tutti noi: come società, come credenti, come Chiesa.

Il dolore va accompagnato, non scorciato

In Italia, il suicidio assistito è formalmente un reato, ma la Corte Costituzionale (sentenza 242/2019) ha stabilito che non è punibile in casi eccezionali: pazienti capaci di intendere, affetti da patologie irreversibili, in condizioni di sofferenza intollerabile e dipendenti da trattamenti di sostegno vitale.

Laura Santi rientrava in questi criteri. Ma è proprio qui che nasce una domanda: è giusto che la risposta al dolore sia la morte? Non dovremmo piuttosto offrire a chi soffre cure palliative efficaci, accompagnamento umano e spirituale, reti di sostegno concrete?

Molti medici e operatori delle cure palliative lo ripetono da anni: la gran parte delle richieste di morte nasce non tanto dal dolore fisico, quanto dalla paura, dalla solitudine, dalla mancanza di speranza. Ed è proprio qui che la società deve fare di più: offrire presenza, vicinanza, amore, non una scorciatoia.

La posizione della Chiesa: difendere la dignità, sempre

La Chiesa cattolica ha una posizione chiara e coerente: la vita è un dono inviolabile di Dio, da custodire sempre, anche e soprattutto quando è fragile. Il suicidio assistito, pur nelle sue forme legalmente tollerate, resta moralmente inaccettabile. Come ha scritto Papa Francesco nella lettera Samaritanus bonus (2020):

«La vera compassione non consiste nel causare la morte, ma nell’accogliere il malato, nell’accompagnarlo e nell’aiutarlo a trovare senso nella prova».

Questo non significa idolatrare la sofferenza, né imporre un accanimento terapeutico. Significa invece credere che ogni persona vale fino all’ultimo respiro. E che l’amore può dare senso anche al dolore, quando è condiviso e accompagnato.

I santi che hanno vissuto la malattia come offerta

La storia della Chiesa è piena di esempi di uomini e donne che hanno affrontato il dolore non con rassegnazione passiva, ma con fede e speranza. Pensiamo a San Giovanni Paolo II, che nei suoi ultimi anni, segnati dal Parkinson, ha mostrato al mondo che la fragilità non toglie dignità. O a Santa Veronica Giuliani, che nel dolore trovava unione profonda con Cristo. O ancora al Beato Carlo Acutis, che offrì le sue sofferenze per la Chiesa, affrontando una leucemia fulminante con il sorriso e la preghiera.

Non sono supereroi della fede, ma testimoni di una verità profonda: la sofferenza non è l’ultima parola. Lo è l’amore.

Servono più cure, non più morte

La vicenda di Laura Santi merita rispetto e delicatezza. Ma non può diventare un simbolo per promuovere l’eutanasia come scelta di civiltà. La vera civiltà è quella che accompagna, non che elimina. È quella che cura, sostiene, conforta, anche quando non può guarire.

La vita è sempre degna. E anche nella sofferenza estrema, può fiorire una speranza. La sfida della nostra società è non spegnere quella speranza, ma custodirla, alimentarla, testimoniarla. Fino alla fine.