Droni ucraini attaccano la raffineria della Lukoil a circa mille chilometri dal fronte

Un attacco con droni ha colpito una grande raffineria della Lukoil a circa mille chilometri dal fronte. È uno dei raid più profondi mai compiuti dall’Ucraina su territorio russo: un messaggio chiaro a Mosca, ma anche al mondo, sulla capacità di colpire il cuore industriale che alimenta la macchina militare del Cremlino.

L’operazione arriva pochi giorni dopo l’annuncio di Vladimir Putin sul test di un nuovo missile a propulsione nucleare — simbolo di una corsa tecnologica che non parla di difesa, ma di intimidazione globale. Kiev risponde con ciò che ha: droni, intelligence, precisione. La Russia replica con missili contro infrastrutture energetiche ucraine in vista dell’inverno. Nessuno arretra, nessuno cede: la guerra si fa più lunga, più profonda, più imprevedibile.

Sul terreno, al 30 novembre, le linee restano sostanzialmente congelate. Le offensive lampo sono un ricordo, il Donbass è un labirinto di artiglieria e trincee, il sud resta conteso. Il fronte non si muove, ma la guerra sì: nelle catene energetiche, nella cybersicurezza, nell’economia di guerra, nelle mosse diplomatiche.

Ogni giorno che passa la logica è la stessa: logorare l’altro per sedersi al tavolo in vantaggio. Ma mentre si colpiscono raffinerie e centrali elettriche, si colpisce anche un’idea — quella che questa guerra possa restare confinata e “gestibile”.

Serve realismo: l’Ucraina difende la propria sopravvivenza, la Russia punta al tempo lungo, l’Europa teme l’inverno e la stanchezza, l’America alterna sostegno e tensioni politiche interne. Nel mezzo, milioni di vite sospese.

La strategia militare parla di profondità. Quella umana e politica, oggi più che mai, dovrebbe parlare di futuro. Perché quando la guerra entra nel cuore delle infrastrutture e delle economie, la pace non si improvvisa: si prepara. E ogni giorno perso la allontana.