Nel cuore del conflitto che devasta la Striscia di Gaza, mentre le bombe distruggono case e scuole, a cadere sotto i colpi della guerra sono sempre più spesso i medici. Figure di speranza, ridotte a bersagli. L’uccisione del dottor Marwan Al-Sultan e di centinaia di altri operatori sanitari non è solo una tragica perdita individuale, ma il segno di una strategia che mira a cancellare la capacità stessa di una società di prendersi cura dei suoi feriti. In una guerra che non risparmia neppure chi salva vite, la distruzione della sanità civile rappresenta una delle ferite più profonde e silenziose del nostro tempo.

«La sua unica colpa era essere un dottore». Le parole pronunciate dal direttore dell’ospedale al-Shifa, Mohammed Abu Selmia, all’indomani dell’uccisione del dottor Marwan Al-Sultan e della sua famiglia in un bombardamento aereo a Gaza, condensano il dramma di una guerra che non si accontenta più di colpire obiettivi militari: colpisce le fondamenta della vita civile, in particolare la cura e la possibilità stessa di assistenza sanitaria.

Al-Sultan non è un’eccezione. Dal 7 ottobre 2023, secondo dati delle Nazioni Unite, oltre 1.400 operatori sanitari sono stati uccisi nella Striscia di Gaza: medici, infermieri, tecnici, personale di primo soccorso. Molti di loro sono morti nei pressi o all’interno di ospedali, altri mentre viaggiavano a bordo di ambulanze, altri ancora durante tentativi di evacuazione di pazienti. A ciò si aggiungono oltre duecento operatori sanitari arrestati, in gran parte senza accuse formali, come nel caso del dottor Hussam Abu Safiya, scomparso in custodia israeliana da oltre sei mesi.

L’annientamento sistematico del sistema sanitario

Colpire ospedali e personale medico non è solo una tragica conseguenza collaterale delle operazioni militari: è un colpo deliberato alla capacità della società civile palestinese di sopravvivere e rigenerarsi. In diverse aree, le strutture ospedaliere sono state rese inservibili per la distruzione delle infrastrutture elettriche e idriche, o per l’impossibilità di approvvigionarsi di materiali sanitari. Il 21 maggio scorso, ad esempio, l’ospedale Indonesiano di Beit Lahiya ha cessato ogni attività in seguito al danneggiamento definitivo dei generatori.

Questa situazione genera una spirale drammatica: mentre aumentano i feriti e i malati cronici abbandonati a se stessi, diminuiscono i luoghi e i professionisti in grado di curarli. In assenza di un tessuto sanitario funzionante, anche un cessate il fuoco rischierebbe di risultare solo una pausa in un’agonia senza soluzione.

La cura come atto politico e profetico

La presenza di medici e operatori sanitari nelle zone di conflitto non è mai neutra. È un gesto di resistenza umana. È il segno concreto di un ordine della vita che continua a opporsi all’abisso. Eppure, sempre più spesso, questi professionisti diventano bersagli. Il paradosso si fa stridente: la figura per eccellenza della neutralità, quella del medico, diventa figura da eliminare.

Non è un caso isolato. Durante altri conflitti, come in Siria o nello Yemen, le strutture sanitarie sono state deliberatamente colpite, nonostante la protezione garantita dal diritto internazionale umanitario. La Convenzione di Ginevra e i suoi protocolli aggiuntivi sono inequivocabili: gli ospedali, le ambulanze, il personale sanitario godono di uno statuto speciale e inviolabile, anche nel mezzo delle ostilità. Quando questa norma viene ignorata sistematicamente, il rischio è la disintegrazione del principio stesso di umanità nella guerra.

Il peso della memoria e le condizioni per una pace vera

In queste settimane, mentre alcune diplomazie internazionali parlano di possibili tregue e proposte di cessate il fuoco, il terreno racconta un’altra verità. La media di vittime civili resta altissima. Gaza continua a registrare, ogni giorno, tra le 100 e le 150 persone uccise. Parlare di cessate il fuoco, in queste condizioni, rischia di essere un linguaggio vuoto se non accompagnato da un reale impegno per proteggere la popolazione, fermare le violenze, ricostruire ciò che è stato distrutto.

La pace, come insegna la dottrina sociale della Chiesa, non nasce da un equilibrio tra forze, ma dalla giustizia, dalla verità, dalla cura reciproca. L’eliminazione sistematica dei medici, la devastazione delle strutture ospedaliere, la trasformazione dell’aiuto umanitario in strumento di pressione politica – come dimostrano anche le recenti polemiche sulla gestione della distribuzione alimentare nella Striscia – contraddicono radicalmente ogni discorso sulla pace.

Quando la cura diventa profezia

La testimonianza silenziosa di coloro che hanno continuato a curare sotto le bombe rimane un monito. La loro opera, spezzata da proiettili o da detenzioni arbitrarie, rivela una verità evangelica e umanissima: chi salva una vita, salva il mondo intero. In questo tempo ferito, essi rappresentano il volto di una resistenza che non porta armi, ma mani protese, garze, bisturi, occhi stanchi.

Ricordare i nomi di questi medici non è solo un atto di giustizia. È un dovere di coscienza, un contributo alla costruzione di un orizzonte diverso, dove il diritto alla salute – che è un diritto alla dignità – non sia più conculcato dalla logica del dominio.

In Medio Oriente, come altrove, ogni processo di pace autentico dovrà cominciare anche da qui: dal riconoscimento della dignità di chi cura. Perché un popolo che non può curarsi è un popolo che viene lentamente condannato a sparire. E questo, per la coscienza del mondo, dovrebbe essere inaccettabile.


“Ogni essere umano ha diritto alla vita, all’integrità fisica e ai mezzi necessari per un dignitoso tenore di vita” (Pacem in Terris, n. 11). Se questa parola oggi è profetica, lo è perché svela ciò che manca: la pace non si misura con la fine delle ostilità, ma con l’inizio della cura.