«I carri di Gedeone». Con questo nome biblico, l’esercito israeliano ha battezzato l’ultima offensiva terrestre a Gaza, lanciata nel cuore della notte con l’obiettivo – dichiarato – di “occupare definitivamente nuove aree” del territorio palestinese. Ma cosa resta oggi dello spirito del Gedeone biblico, umile e riluttante strumento della giustizia di Dio, in un’operazione che ha già prodotto centinaia di vittime civili in pochi giorni e un nuovo esodo di 300.000 persone, colpite da bombardamenti nelle scuole, negli ospedali, perfino nei rifugi?
In una terra già martoriata da 19 mesi di assedio, questa invasione non è che l’ennesimo capitolo di una tragedia che ha assunto i contorni di un vero e proprio progetto di disumanizzazione. Conquistare, radere al suolo, trasferire forzatamente popolazioni intere – oggi come ieri – non può trovare legittimità né nella Bibbia, né nel diritto internazionale. E tantomeno nella coscienza cristiana.
Dall’occupazione alla permanenza
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato con chiarezza: l’obiettivo non è più un’incursione temporanea, ma la conquista stabile di porzioni della Striscia, nel quadro di una “vittoria totale” contro Hamas. Ma la “vittoria totale” ha il volto di 200 morti in 24 ore, 72 donne uccise solo sabato, ospedali devastati, bambini sotterrati dalle macerie, carestia indotta dalla chiusura dei confini e dall’impedimento sistematico degli aiuti.
Non c’è giustizia che possa nascere da questa logica di annientamento. E non c’è Bibbia – né Antico né Nuovo Testamento – che possa giustificare una teologia dell’occupazione permanente. I carri di Gedeone, oggi, non liberano. Travolgono vite innocenti.
L’umanità sequestrata
Dietro le parole dell’esercito israeliano – “zona pericolosa”, “trasferirsi subito a sud” – c’è una pratica che le Nazioni Unite hanno più volte definito pulizia etnica strisciante. Popolazioni costrette a fuggire da una parte all’altra di una striscia lunga appena 40 chilometri, ridotte a numeri biometrici, sorvegliate da contractor americani che gestiranno gli aiuti in un nuovo piano militarizzato.
Siamo davanti a una umanità sequestrata, privata non solo del diritto alla vita, ma anche della dignità, della libertà di movimento, della speranza. E mentre le trattative a Doha provano a mediare un cessate il fuoco temporaneo, la strategia israeliana punta invece alla destabilizzazione permanente. Si negozia con la pistola sul tavolo.
Una questione di fede
Come cristiani, non possiamo restare neutrali. La fede, quando è viva, grida. Grida nel pianto delle madri, nel silenzio dei corpi sepolti sotto i bombardamenti, nel grido dei bambini senza casa, senza pane, senza futuro. Grida perché «quello che fate a uno di questi piccoli, lo fate a me» (Mt 25,40).
Israele ha diritto alla sicurezza, ma non alla vendetta. Ha il dovere di liberare gli ostaggi, ma non può pretendere di farlo con la distruzione sistematica di un popolo. Il terrorismo non si sradica con altri crimini. Chi usa la Bibbia per giustificare i carri armati, la bestemmia.
Silenzi e ipocrisie
La comunità internazionale – anche quella europea – resta ambigua. Il Consiglio europeo parla di “forza sproporzionata”, ma nulla cambia. Il ministro italiano Tajani si dice preoccupato, ma intanto il governo italiano conferma accordi militari e autorizza la vendita di sistemi d’arma. Si prega per la pace, ma si finanziano i conflitti.
È giunto il tempo che le chiese, le riviste cristiane, i movimenti ecclesiali, si interroghino pubblicamente: possiamo ancora tacere? Possiamo ancora sostenere ambiguità morali, mentre Gaza brucia? La “teologia della pace” non può ridursi a dichiarazioni solenni: deve farsi scelta di campo. E il campo è oggi quello dei profughi di Beit Lahia, dei corpi straziati a Yabalia, delle madri che vegliano i loro figli.
Un Vangelo disarmato
Cristo non è venuto per portare la pace delle potenze, ma quella dei miti e dei costruttori di pace. Non ha parlato dai carri, ma dall’asino. Non ha ordinato di espellere i nemici, ma di amarli. Non ha mai giustificato la conquista, ma ha difeso i piccoli e i perseguitati.
Per questo, da Gaza a Roma, da Baghdad a Gerusalemme, il nostro dovere di cristiani è oggi alzare la voce contro ogni logica di dominio. Pregare per la pace, certo. Ma anche lavorare per essa, con parole chiare, prese di posizione scomode, solidarietà concreta.
Il popolo palestinese non ha bisogno di elemosine, ma di giustizia. E noi non abbiamo più alibi. Il tempo dei distinguo è finito.