Il Parlamento sta discutendo una legge sul fine vita. Martedì sera il testo della maggioranza è approdato al Comitato ristretto del Senato, da mercoledì entra nelle Commissioni, e si punta all’Aula a metà luglio. È un “passo avanti”, dicono i relatori. Ma ogni volta che si tocca il tema della vita e della morte, non basta parlare di tecnica legislativa: si entra nel mistero dell’uomo, e la società intera viene interpellata.

Il primo articolo ribadisce che la vita è un diritto fondamentale. Ma è sparita l’espressione “dal concepimento alla morte naturale”: una omissione che non è neutra. Per la visione cristiana, la vita è un dono indisponibile dall’inizio alla fine, e togliere quelle parole significa rischiare di sganciare il diritto dalla sua radice più profonda.

Il cuore della legge è la non punibilità del suicidio assistito in alcune condizioni molto limitate. È la traduzione di quanto chiesto dalla Corte costituzionale. Ma proprio qui si apre la domanda pastorale: cosa significa per una persona fragile sentirsi “accompagnata” da uno Stato che contempla anche la possibilità di agevolare la sua morte? Non si rischia, magari in modo implicito, di trasmettere un messaggio di solitudine?

In positivo, va salutata la valorizzazione delle cure palliative: finalmente la legge dice che le Regioni devono garantire i servizi, pena commissariamenti e restituzioni dei fondi. È un segnale chiaro, e la Chiesa non può che sostenerlo: perché accompagnare la sofferenza, lenirla e non lasciarla mai sola, è la risposta evangelica e umana alla disperazione. Ma non basteranno i vincoli: servono risorse, professionalità, prossimità.

Il caso di Martina Oppelli, triestina malata di sclerosi multipla, a cui è stato negato per la terza volta il suicidio assistito perché non rientrava nei criteri, ricorda che dietro ogni legge ci sono volti, storie, sofferenze vere. La pastorale della Chiesa deve partire da lì: dal chinarsi sulle ferite, dall’essere accanto, dall’offrire una speranza che non neghi il dolore ma lo attraversi con la luce della prossimità.

Il Vangelo ci ricorda che la vita resta un dono anche quando è segnata dalla fragilità. La risposta alla richiesta di morire non può essere soltanto una procedura: dev’essere un tessuto di relazioni, cure, solidarietà. Solo così l’inviolabilità della vita non resta parola scritta, ma diventa esperienza concreta per chi soffre.