L’abbattimento di oltre dieci droni russi nello spazio aereo polacco e l’imminente esercitazione congiunta russo-bielorussa Zapad-2025 hanno immediatamente riacceso i riflettori sulla sicurezza dell’Europa orientale. La narrazione dominante parla di “atto di aggressione” e di minaccia diretta alla Nato. Tuttavia, il rischio è che un episodio inquietante ma circoscritto diventi la scintilla per giustificare un’accelerazione del riarmo e, con esso, una riconversione industriale che non sempre coincide con il bene comune.

Le paure sono reali: Polonia, Lituania e Lettonia vivono un clima di tensione costante, memori del 2022 quando esercitazioni simili furono preludio all’invasione dell’Ucraina. Ma il salto logico che porta dal timore alla certezza dell’attacco all’Europa è tutt’altro che inevitabile. Al contrario, la storia insegna che spesso il linguaggio dell’allarme serve a consolidare scelte politiche ed economiche già tracciate.

Non è un mistero che il riarmo europeo sia oggi al centro di una strategia di lungo periodo. La Nato da anni chiede agli Stati membri di portare la spesa militare al 2% del Pil. Ma ora Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, rilancia con una pressione ancora più forte: alzare l’asticella fino al 5%, trasformando l’Europa in un enorme mercato per la difesa. Una prospettiva che significa centinaia di miliardi di euro in più sottratti a scuola, sanità, transizione ecologica e convogliati nell’industria bellica. Ogni drone che cade in un campo polacco diventa così un tassello utile a legittimare nuovi stanziamenti, nuove commesse, nuovi cicli industriali.

Il problema è che questo processo avviene senza un vero dibattito pubblico. L’opinione pubblica, spaventata da immagini di incursioni e confini violati, finisce per accettare come inevitabile l’idea di una Europa “fabbrica di armi”, sacrificando risorse che potrebbero essere destinate a rafforzare la coesione sociale. La logica dell’emergenza sostituisce la logica della scelta.

Questo non significa sottovalutare la minaccia russa o illudersi che la sicurezza si costruisca solo con buone intenzioni. Significa, piuttosto, non cadere nella trappola di un racconto che riduce la complessità geopolitica a uno slogan: “attacco all’Europa”. L’Europa è già dentro una guerra che non ha scelto, ma il modo in cui decide di reagire – con più diplomazia o più cannoni – dirà molto sul suo futuro.

In fondo, l’articolo 5 del Patto Atlantico, tanto evocato in queste ore, è stato utilizzato una sola volta, dopo l’11 settembre. La sua forza è stata soprattutto simbolica, deterrente. Oggi, però, rischia di diventare un grimaldello per spostare l’asse politico ed economico del continente. Da comunità di pace, l’Unione europea potrebbe trasformarsi nel più grande mercato mondiale della difesa, sotto la regia americana.

Serve equilibrio. La sicurezza dei cittadini è prioritaria, ma non può essere brandita come scusa per alimentare una corsa al riarmo senza precedenti. Perché un’Europa che investe tutto nelle armi rischia di diventare un’Europa sempre pronta alla guerra.