C’è una domanda, più radicale di quanto sembri, che attraversa secoli di cristianesimo e oggi torna con forza, spesso confusa tra rivendicazioni identitarie e smarrimenti morali: cosa pensiamo davvero del corpo umano?

Nel Salmo 8 si legge che l’uomo è stato creato “poco meno degli angeli” e “coronato di gloria e di onore”. Ma questa verità, tanto esaltante quanto pericolosa, ha sempre oscillato tra due eccessi: l’idolatria del corpo e il suo disprezzo. E la tradizione cristiana, nel tentativo di fuggire entrambi, ha finito spesso per restare impigliata in una lunga, dolorosa ambivalenza.

Infatti, se l’Incarnazione di Cristo proclama solennemente la bontà della carne, troppe pagine della nostra storia ne hanno fatto il luogo del sospetto. Il corpo – e più ancora la sessualità – è stato visto come il campo di battaglia tra grazia e natura, come un problema da risolvere o un istinto da disciplinare. E la donna, per lungo tempo, ne è stata la principale vittima.

Un corpo da redimere o da nascondere?

Non è un mistero che per secoli le pratiche religiose abbiano discriminato il corpo femminile: basti ricordare i divieti e le esclusioni liturgiche legati al ciclo mestruale, le reticenze nel riconoscere le capacità teologiche delle donne, l’assenza di una riflessione integrale sulla reciprocità sessuale.

Eppure, già nei primi secoli cristiani, figure femminili eccezionali – mistiche, martiri, ascete – hanno mostrato come il corpo potesse essere non solo custodito, ma abitato come luogo teologico, cioè come spazio in cui si rivela qualcosa di Dio. Il cristianesimo non ha mai smesso di produrre corpi profetici: spesso però li ha tollerati più che promossi.

Celibi come angeli, sposi come santi

L’elogio del celibato ha avuto nella Chiesa una lunga stagione di centralità. Ed è comprensibile: c’è una bellezza straordinaria nella scelta radicale di chi si consacra a Dio rinunciando a legami esclusivi. Ma si è trattato – a tratti – di un’elevazione che ha umiliato l’alternativa: la vita matrimoniale è stata spesso percepita come una concessione alla debolezza umana.

Solo con fatica il matrimonio è stato pienamente accolto come via di santità. La sua sacramentalità, definita tardi, ha stentato a scendere nella mentalità ecclesiale. Per secoli si è scritto più della verginità che dell’amore coniugale; e ancora oggi non sempre si educa a vivere la sessualità come parte integrante di una vocazione cristiana.

Eppure proprio la teologia del corpo – a partire dal magistero più recente – offre oggi nuove parole per dire che il piacere, l’intimità, la fecondità, sono doni da vivere nella luce della grazia. Non “malgrado” il corpo, ma “grazie” ad esso.

Amore e libertà oltre le paure

Le trasformazioni culturali recenti – dai dibattiti sull’identità di genere alle nuove forme di famiglia, dal ruolo delle donne alla questione LGBTQ+ – hanno messo la Chiesa davanti a interrogativi urgenti. Talvolta ci si è rifugiati dietro formule, altre volte si è scivolati in posizioni difensive.

Ma una fede autentica non teme le domande. Al contrario: le abita. Ed è proprio nel tornare al Vangelo, senza censure, che si può riscoprire una visione più ampia dell’umano, capace di custodire la verità senza negare la complessità.

Gesù, nel Vangelo, sorprende: elogia la fedeltà coniugale ma dice che “nel Regno non si prende né si dà in moglie”; esalta la maternità di Maria ma aggiunge che “beato è chi ascolta la Parola”; nasce da donna ma non rinuncia all’idea di una famiglia. Il suo sguardo è libero e profondo, non incasellabile. Gesù non rinuncia alle amicizie, alle relazioni che vive in modo libero, puro, redimente. …Si meravigliavano (i discepoli) che parlasse con una donna (Gv 4,27).

Verso una nuova grammatica del corpo

Ci sarà bisogno, nei prossimi anni, di un’antropologia cristiana capace di parlare a questo tempo senza paura né ideologia. Un’antropologia pasquale, che parta dal corpo crocifisso e risorto per dire che nessuna storia umana è indegna, che nessun amore è estraneo alla domanda di senso, che nessuna carne è scartabile.

“Poco meno degli angeli” non significa vivere come se non avessimo un corpo. Significa ricordare che nel corpo, nella sua fragilità e nella sua gloria, si gioca la possibilità dell’amore. Un amore vero, liberato dai fantasmi, radicato nel dono. Non si tratta di scegliere tra anima e carne, ma di riconciliare ciò che Dio ha unito.

Solo così, forse, torneremo ad avere corpi raggianti. Come quelli del Salmo: “Guardate a Lui e sarete raggianti, i vostri volti non arrossiranno mai”.