Firmato a Washington sotto l’occhio compiaciuto della Casa Bianca, l’accordo che dovrebbe mettere fine alla guerra non dichiarata tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo ha lasciato l’unica vera parte lesa – la società civile congolese – fuori dal tavolo delle celebrazioni. Mentre le cancellerie occidentali e le organizzazioni internazionali esultano, nessuno si interroga su ciò che realmente significa questa “pace”.
Il format è ormai noto: tregua imposta senza troppi distinguo tra aggrediti e aggressori, secondo lo schema testato in Medio Oriente e in Ucraina. Intanto, le milizie hutu dovrebbero essere disarmate, l’esercito ruandese dovrebbe ritirarsi e, soprattutto, le miniere congolesi dovrebbero cominciare a funzionare a pieno regime per rifornire il mercato globale di terre rare, coltan, cobalto. Più che un processo di pace, una corsia preferenziale per i minerali strategici, oggi indispensabili per la transizione digitale e verde, soprattutto a uso e consumo delle economie del Nord.
Il Ruanda di Paul Kagame – piccolo ma militarizzato, tecnologico e alleato privilegiato di Israele – non ci rimette nulla. Anzi, guadagna. Nonostante il suo coinvolgimento nella destabilizzazione del Kivu orientale con l’appoggio alla milizia M23, nonostante le accuse documentate di crimini contro l’umanità, Kigali si ritrova oggi premiata come interlocutore credibile. Un paese che, tra l’altro, ha già “servito” le potenze occidentali accogliendo migranti indesiderati dietro compenso, come Israele ha fatto prima della Gran Bretagna e ora l’Italia, spostando il teatro in Albania.
La RDC, invece, incassa promesse. Ma dietro le promesse si cela un copione noto: quello di un paese immenso, martoriato, utilizzato come un magazzino a cielo aperto dai colonialisti di ieri e di oggi. Nulla di nuovo, se si pensa che già nel XIX secolo il Congo era il bancomat di Leopoldo II del Belgio, in una delle pagine più feroci e ipocrite del colonialismo europeo, con il pretesto della “filantropia” che oggi sembra riecheggiare nei sorrisi americani.
Nel tempo, le stesse vene del Congo – uranio, rame, diamanti, cobalto, coltan – hanno finanziato non solo i lussi occidentali ma anche le guerre, i colpi di stato, gli assassinii di leader scomodi come Patrice Lumumba. Le potenze si sono alternate (dal Belgio agli USA, dalla CIA a Pechino) ma il principio è rimasto: garantire il controllo delle risorse, anche a costo di manipolare la geopolitica locale.
Il “corridoio di Lobito”, infrastruttura ferroviaria transcontinentale sponsorizzata da Biden e sostenuta da Bruxelles, sembra oggi la nuova arteria dell’estrattivismo. Un investimento di oltre 4 miliardi per trasportare i minerali del cuore dell’Africa direttamente verso l’Atlantico, puliti, legalizzati e apparentemente pacificati. Come se la pace fosse solo un atto doganale.
Intanto, tre decenni di guerre ininterrotte in Congo hanno già prodotto milioni di morti, stupri, sfollamenti. Eppure, nella narrazione ufficiale, si preferisce parlare di sviluppo e cooperazione, evitando ogni riferimento all’enorme responsabilità dell’Occidente, dei suoi mercati e delle sue multinazionali.
La firma di Washington non è la fine di un conflitto, ma il consolidamento di un sistema. Un sistema che chiude un occhio – o entrambi – su chi arma, sfrutta e reprime, purché garantisca l’accesso alle materie prime. Il Congo, ancora una volta, viene “pacificato” non per amore della sua gente, ma per l’interesse degli altri.
Forse Trump non lo sa, o forse sì: ma nel suo sorriso da affarista globale si riflette l’ombra lunga di Leopoldo II. Con la differenza che oggi il lattice non serve più. Oggi serve coltan. E la filantropia, ancora una volta, è solo un alibi.