Ulteriori piste investigative sul delitto di Garlasco
Diciotto anni dopo l’omicidio brutale di Chiara Poggi, la giovane di Garlasco uccisa nella sua abitazione il 13 agosto 2007, alcuni tasselli finora rimasti oscuri tornano a parlare. Il tempo — che per alcuni guarisce — per altri custodisce. E restituisce.
Una nuova traccia di DNA maschile sconosciuto, rinvenuta nella bocca della vittima, riapre le domande che sembravano chiuse dalla sentenza definitiva di condanna contro Alberto Stasi nel 2015. Gli esperti escludono la contaminazione accidentale: o Chiara ha morso il suo aggressore, o questi le ha tappato la bocca. In entrambi i casi, un altro uomo era lì. E oggi si ipotizza possa essere Michele Bertani, amico di Andrea Sempio (a sua volta finito al centro di una pista alternativa), morto suicida nel 2016. Forse solo un’ipotesi. Ma che inquieta.
La giustizia umana, lo sappiamo, è fragile. Esiste una verità processuale, fatta di prove ammesse e procedimenti. Ma non è sempre la verità della storia, né tanto meno quella del cuore. E il caso Garlasco, come altri nella cronaca giudiziaria italiana, mette in tensione questi due livelli. Le sentenze vanno rispettate. Ma quando nuovi indizi parlano, e lo fanno con la voce silenziosa della scienza, è doveroso ascoltarli. E vigilare.
Perché a inquietare oggi non è solo il DNA. Ma l’intenzione abietta di un ex poliziotto di trafficare immagini dell’autopsia di Chiara per lucro personale. Un oltraggio che ci interroga come società. Una giovane uccisa con ferocia, e che neanche da morta riesce a trovare pace. La Procura è intervenuta prontamente. Ma resta la ferita morale di chi ha cercato di lucrare su un cadavere, in nome della “plutolatria” — il culto del denaro — che tutto giustifica e svende, perfino il dolore.
È questo che più preoccupa: il venir meno della sacralità del corpo e della dignità della persona, anche dopo la morte. In una cultura che idolatra il profitto, il volto di Chiara rischia di essere ridotto a oggetto, la sua memoria a merce. E se ciò accade per mano di chi aveva servito lo Stato, allora il problema è più profondo.
Nessuno può ridare la vita. Ma ogni società ha il dovere di custodire la memoria delle sue vittime con rispetto, verità, giustizia. Non bastano i tribunali: serve una giustizia più alta, quella del cuore e della coscienza. E serve che i media, la politica, le forze dell’ordine tornino a essere luoghi affidabili, non palcoscenici né bazar.
Nel frattempo, c’è sempre da considerare la borsa piena di attrezzi da camino e un martello compatibile con l’arma del delitto, riemersa da un canale nei pressi della casa della nonna delle sorelle Cappa; una figura femminile su una bicicletta nera, vista trasportare un oggetto pesante e ingombrante, che faceva ondeggiare il mezzo: sono dettagli che avevano riacceso l’interesse investigativo all’ultima riapertura del caso nella tarda primavera del 2025. Ma ora, in questa estate che avanza, sembrano già tornati nell’oblio. Eppure sono tessere tutt’altro che marginali: trascurarle sarebbe un errore imperdonabile, anche per rispetto della verità storica e del dovere morale che ogni società ha verso le sue vittime.
Forse c’è un innocente in carcere. Forse c’è un colpevole in libertà, o un assassino sepolto da tempo, mentre un eventuale complice cammina ancora tra noi. L’ipotesi più inquietante è che due persone abbiano agito, e solo una delle due abbia pagato.
Quel che è certo è che Chiara Poggi merita rispetto, giustizia e verità. Con lei, i suoi familiari e l’intera opinione pubblica meritano chiarezza, trasparenza, umanità. Non basta una sentenza per dire che tutto è compiuto. Finché resteranno ombre, la vera giustizia non sarà ancora stata fatta.