La sentenza del Supremo Tribunale Federale che infligge 27 anni a Jair Bolsonaro per tentativo di golpe segna un precedente senza ritorno: nessun ex presidente era mai stato punito per un crimine contro la democrazia. Tra pressioni interne, ingerenze statunitensi e timori di polarizzazione, il Brasile si trova a un bivio: fare della condanna un atto di giustizia sobria o trasformarla nell’ennesimo mito di persecuzione.
La condanna di Jair Bolsonaro a ventisette anni e tre mesi per tentativo di colpo di Stato, con ulteriori reati che vanno dall’organizzazione criminale armata all’abolizione dell’ordine democratico, è una soglia che il Brasile non aveva mai oltrepassato: per la prima volta un ex presidente paga, in sede penale, per un crimine contro la democrazia. Il dispositivo della Primeira Turma fissa un regime iniziale chiuso, ventiquattro anni e nove mesi di reclusione più la parte residua di detenzione, 124 giorni-multa raddoppiati a due salari minimi ciascuno e, per tutti i condannati, l’ineleggibilità successiva al termine della pena. È un verdetto che, al netto dei ricorsi, restituisce la grammatica del limite: nessuno, nemmeno chi ha guidato lo Stato, è al di sopra della legge.
Non è una pagina “contro” un avversario, ma “a favore” delle istituzioni. La Corte ha riconosciuto un disegno, non una combustione spontanea: pressioni, tentativi di piegare gli apparati, la volontà dichiarata di non accettare la sconfitta. La lettura minimizzante—“sproloqui”, “turbas desordenadas”—non regge di fronte a un quadro probatorio che parla di organizzazione e finalità. È la democrazia che si difende, non un governo che si vendica.
La decisione è maturata in un contesto internazionale incandescente, nel quale la violenza politica riaffiora con inquietante frequenza. Nelle stesse ore, negli Stati Uniti, si arresta il presunto assassino dell’attivista conservatore Charlie Kirk e il Dipartimento di Stato minaccia misure sui visti per gli stranieri che hanno “glorificato” l’omicidio sui social. Segnali che dicono quanto la polarizzazione stia logorando i presìdi civili in molte democrazie, e quanto sia urgente ribadire—con i fatti, non con gli slogan—che la legittimità nasce dalle regole.
C’è però un altro capitolo che non si può eludere: l’ingerenza esterna. Nel pieno del caso, da Washington sono arrivati messaggi e atti che hanno provato a piegare la lettura del processo brasiliano. Da un lato, esponenti dell’Amministrazione hanno bollato la condanna come “caccia alle streghe”, annunciando “risposte adeguate”; dall’altro, un gruppo di parlamentari democratici ha accusato la Casa Bianca di aver indebolito la democrazia brasiliana con tariffe punitive del 50% e pressioni politiche “in favore del collega leader della tentata sovversione”. Si aggiungano le revoche di visti a magistrati e autorità brasiliane, i ventilati inasprimenti di sanzioni e perfino la campagna—condotta dall’estero—per ottenere ulteriori misure contro Brasilia. Tutto questo compone un quadro problematico: una potenza alleata che usa dazi, visti e megafoni mediatici come strumenti di politica giudiziaria “per procura”, alimentando il sospetto che il giudizio di legittimità sul Brasile debba passare per tribunali d’opinione stranieri.
Per un Paese che vuole guarire dalle sue ferite istituzionali, questa è una trappola. Giustizia e sovranità non si difendono con rappresaglie commerciali né con liste di proscrizione consolare. Si difendono con la solidità delle motivazioni, con il rispetto del contraddittorio, con l’esecuzione sobria delle pene. L’ingerenza—di qualunque segno—sposta la discussione dal diritto ai blocchi geopolitici, trasformando un doveroso processo di responsabilità in un derby internazionale. E offre ai fautori della “verità alternativa” l’ennesima stampella propagandistica: “vedete, è tutto deciso fuori”.
In Brasile, la giustizia ai piani alti è anche un banco di prova pratico, simbolico, civile. Non è la prima volta che un ex capo dello Stato conosce la privazione della libertà: Lula trascorse 580 giorni in una stanza di sicurezza della Polizia federale a Curitiba—spazio ridotto, bagno proprio, controlli costanti—; Michel Temer fu trattenuto in ambienti della PF a Rio e a San Paolo, quindi in una sala di Stato maggiore; Fernando Collor ha iniziato tra una struttura penitenziaria e, dopo poche settimane, la progressione al domiciliare con braccialetto e forti restrizioni. Ogni volta, oltre al diritto, pesano sicurezza, incolumità personale, rischio di strumentalizzazione politica di ogni scelta logistica.
Per Bolsonaro, gli scenari oggi discussi sono quattro: la permanenza ai domiciliari per ragioni di salute (su cui la difesa insisterà); una stanza di sicurezza nella Superintendência da Polícia Federal di Brasília, sul modello già sperimentato; una cella speciale nel complesso della Papuda, con protocolli rigorosi di separazione; infine, l’ipotesi—considerata remota—di un reparto militare, che la stessa magistratura giudica politicamente rischiosa per possibili assembramenti e tensioni. La scelta spetterà al relatore, Alexandre de Moraes, dopo la finestra tecnica degli ultimi ricorsi: la bussola dovrà restare ferma su tre punti—dignità della persona, sicurezza collettiva, immunità da spettacolarizzazioni.
Qui sta il cuore del messaggio: lo Stato di diritto non si misura solo con la sentenza, ma con come la sentenza viene eseguita. Trasformare il carcere in teatro sarebbe suicida; negare la pena in nome della “pace sociale” lo sarebbe altrettanto. Tra il martirologio e la pena-spettacolo c’è la via stretta della serietà costituzionale: motivazioni solide, ricorsi garantiti, fermezza non vendicativa nell’esecuzione. È questa sobrietà a impedire che la condanna diventi benzina per nuove polarizzazioni—interne o importate—e a togliere terreno a chi vuole ridurre tutto a un regolamento di conti geopolitico.
Per una coscienza cristiana, la pagina di oggi chiede un passo in più: non trionfalismo, ma conversione della vita pubblica a tre parole semplici e severe—verità, giustizia, riconciliazione. Verità: chiamare i fatti per nome, senza eufemismi. Giustizia: regole uguali per tutti, capi compresi, senza umiliazioni. Riconciliazione: la comunità non si ricostruisce con epurazioni o vendette, ma con memoria, responsabilità, riparazione. Se questo verdetto diventerà pietra d’angolo di un patto nuovo—partiti che si sfidano senza delegittimarsi, forze armate fuori dalla contesa, piattaforme digitali meno opache e più responsabili—il Brasile ne uscirà più forte. Se verrà usato per rinfocolare risentimenti e interventismi, resterà prigioniero del suo “giorno della marmotta”.
Vale anche per noi. Le democrazie non collassano in un attimo: si consumano con indulgenza verso la menzogna, normalizzazione dell’illecito, culto della personalità, algoritmi che premiano l’odio, e—aggiungiamo—con l’eterna tentazione delle ingerenze che trasformano ogni crisi in pedina di un Risiko globale. Si curano con istituzioni vigili, società civile esigente, cultura del limite. La condanna di Brasilia non è la fine di una contesa, ma l’inizio di una riparazione: accettare le regole del gioco, custodire la dignità dell’avversario, ricordare che l’autorità delle decisioni non viene dal rumore delle piazze o dalle pressioni straniere, ma dalla fedeltà alla Costituzione. È qui che la democrazia torna a respirare. Ed è qui che, insieme, può tornare anche la speranza.