Strage a Nuseirat, sogni di pace sotto le bombe: Gaza merita umanità, non ghetti militarizzati
C’è una parola che oggi stride con la cronaca: umanitario. Lo è, per definizione, ciò che salva la vita. Ma come chiamare “città umanitaria” un enorme campo recintato di tende da 4 miliardi di dollari, dove mezzo milione di palestinesi verrebbero confinati senza diritto a uscirne, sorvegliati dalle IDF? Dove i civili vengono “accuditi” dopo essere stati sradicati, bombardati, mutilati? La lingua, diceva Orwell, è il primo campo di battaglia. E a Gaza si combatte ormai anche con le parole.
Mentre Netanyahu manda lettere e proclami, mentre si inventano “piani di ricostruzione” sulle rovine non ancora fredde di Rafah, le bombe piovono ancora su mercati e rubinetti. A Nuseirat, oggi, dieci morti, sei erano bambini. Stavano facendo la fila per l’acqua. L’IDF parla di “errore tecnico”. Una formula che assolve tutto. I resti dei bambini no, non si assolvono.
Questa guerra non è più solo uno scontro tra Israele e Hamas. È diventata un campo di logoramento per la democrazia israeliana, ostaggio dell’estrema destra, e un laboratorio di politiche neo-coloniali sostenute da calcoli cinici. Lo conferma l’inchiesta del New York Times: nell’aprile 2024, Netanyahu avrebbe potuto accettare un piano di cessate-il-fuoco. L’avrebbero sostenuto anche Usa e mondo arabo. Ma ha preferito restare in sella. A Gaza si muore, ma il governo di Tel Aviv resta in piedi.
Chi chiede il cessate il fuoco – famiglie di ostaggi, diplomatici, parte della società israeliana – è marginalizzato. Chi rilancia la guerra, come i ministri Ben Gvir e Smotrich, viene convocato nei salotti del potere. È il paradosso crudele di una leadership che grida “pace” e nel frattempo costruisce ghetti, chiama “aiuti” ciò che serve a tenere sotto controllo una popolazione e si presenta al mondo come vittima per non dover fare i conti con le sue responsabilità storiche.
Oggi 139 morti a Gaza. Ma ciò che indigna è che tra le macerie si pianifica un futuro senza libertà, senza diritto di movimento, senza autodeterminazione. Una “città” senza cittadini. Gaza come un enorme campo per profughi di guerra permanente. Con fondi, dice Israele, inizialmente a carico proprio. Ma con quali partner internazionali? Chi avrà il coraggio di partecipare a questo progetto di reclusione umanitaria?
In tutto questo, l’Europa? Meloni invita a “portare pazienza”, mentre si moltiplicano gli appelli alle cancellerie perché tornino a parlare con chiarezza del diritto internazionale violato ogni giorno. Dazi, diplomazie, vertici strategici, ma nessuno che oggi parli davvero del diritto all’acqua, alla vita, alla libertà. E così Gaza non muore solo sotto le bombe. Muore sotto l’indifferenza.
Chi costruisce tende recintate mentre cadono i missili, chi alza muri mentre si invocano le tregue, chi parla di “umanitario” e poi nega umanità, dovrebbe almeno avere il coraggio di dire le cose come stanno: questa non è pace. È gestione del disastro. E in un mondo che ha già accettato troppi ghetti, non possiamo permetterci che diventi la nuova norma.