La notte in cui i “bravi ragazzi” hanno perso l’anima

Calci, pugni, due coltellate. Uno studente della Bocconi di 22 anni, ubriaco e indifeso, finisce sotto i portici di un hotel nel cuore di Milano, massacrato da cinque coetanei figli di famiglie perbene. Ora è paraplegico, con danni irreversibili. Loro ridevano, cancellavano chat, inventavano versioni, speravano che «morisse così non parla» e progettavano di postare tutto. Una storia che mostra quanto il male, oggi, possa indossare la felpa di un figlio modello, e quanto la violenza possa trasformarsi in spettacolo digitale.

Milano, 3 del mattino, 12 ottobre

Sotto i portici dell’Hotel Una, tra via Montegrappa e via Rosales, la notte ha una luce livida.

È qui che un ragazzo della Bocconi di appena 22 anni, barcollante per qualche drink di troppo, incontra un gruppo di cinque giovani: tre minorenni, due maggiorenni. Nessuno immaginerebbe cosa accadrà: non sono “balordi”. Sono figli di agenti di commercio, bancari, professionisti, perfino oratoriani.

Gli si avvicinano con la banalità di un pretesto: «Hai una sigaretta?». Poi lo scherno: «Guarda come sei ridotto».

Poi la domanda-trappola: «Hai da cambiare dei soldi?».

Il ragazzo tira fuori qualche banconota. Uno del gruppo gli strappa una da 50 euro e si allontana. Lui, forse per dignità o istinto, lo segue.

Ed è lì che il branco si gira.

La violenza

L’aggressione esplode in un attimo: calci, pugni perfino quando la vittima è già a terra, schiacciata dall’asfalto, incapace di capire.

Poi arrivano le due coltellate: una al gluteo, l’altra al fianco sinistro. Sono fendenti che cambiano un destino: il coltello penetra fino al polmone e poi raggiunge il midollo spinale.

Alle 3:09 una volante della polizia lo trova in fin di vita, immerso in un’emorragia interna devastante.

In ospedale, i medici devono trasfondergli sangue, aprirlo, salvarlo due volte. E riescono: il ragazzo sopravvive.

Ma la diagnosi è una sentenza: paraplegia, danni irreversibili a intestino, apparato urologico e sessuale, nessuna possibilità concreta di recupero motorio. Ha solo qualche flash di quella notte. Il resto lo ha dovuto scoprire dai sanitari e dalla sua famiglia.

La vanità del male

Nei giorni successivi, mentre lui lotta per la vita, uno degli aggressori scrive su TikTok, sotto un video che denunciava gli accoltellamenti a Milano: «Il 7 non l’hanno scoperto ancora». Come fosse un gioco a nascondino. Come se una persona non fosse stata trafitta e distrutta.

Ma le intercettazioni sono la parte più agghiacciante.

Ci sono risate, scherni, versioni da inventare, pretesti, autoassoluzioni. Ci sono frasi che ghiacciano: «È in fin di vita… così almeno non parla.» «Speriamo che muore, bro’.» «Gli stacco tutti i cavi.» «Non so se si vede il video dove lo scanniamo.» «Voglio vedere se ho picchiato forte.» «Facciamo che è un bel gesto: lo andiamo a trovare e diciamo che siamo pentiti.» «In realtà non me ne frega.»

E in mezzo a questo coro, perfino l’orgoglio tecnologico del delitto: «Hanno letto le chat? Ho fatto bene a cancellare i messaggi.»

La violenza non era più solo un atto. Era diventata un contenuto. Un trofeo narrativo da mostrare. Un videoclip di potere.

Chi sono?

Non “banditi”. Non “disperati”. Sono i ragazzi della “Monza bene”, dei quartieri tranquilli fatti di villette e automobili parcheggiate dritte.

C’è Alessandro Chiani, 18 anni, cresciuto in oratorio, definito “vivace”, con un precedente da furtarello estivo.

C’è Ahmed Atia, anche lui 18, con un coltello in tasca già a luglio, quella sera “solo palo”.

Ci sono tre 17enni: un figlio di bancario, un figlio di agente di commercio e un bullo da oratorio-Fortnite.

Uno di loro ha i fratelli maggiori che hanno studiato proprio alla Bocconi.

Le famiglie sono sgomente: «Non sapevo che girasse col coltello… abbiamo pregato per quel ragazzo… siamo devastati».

È questa la parte più difficile da guardare: l’abisso sotto la normalità.

La città e il suo specchio

È successo nel “triangolo delle Bermuda” della movida: Gae Aulenti – Corso Como – Tocqueville. Una zona elegante che, nelle ore giuste, diventa un acquario di buio.

Milano ama definirsi sicura, moderna, protetta. Ma quella notte non lo era.

E non perché mancassero due telecamere o una pattuglia. Ma perché mancavano i freni morali dentro cinque ragazzi che avrebbero potuto essere chiunque.

È questa la verità più inquietante: il male non arriva dalla periferia. È cresciuto in mezzo a noi.

La domanda che resta

Come può una vita essere massacrata per 50 euro? Come può un gruppo di ragazzi trasformare un ragazzo a terra in un trofeo?

Come possono figli di famiglie integrate ridere, scherzare, addirittura progettare una “versione da raccontare”, e sperare che la loro vittima non sopravviva?

La risposta non è comoda. Ma è necessaria.

Viviamo in un tempo in cui la violenza non è solo agita: è performataregistratacondivisacapitalizzata in like.

Dove il gruppo diventa branco, il coltello diventa identità, e l’empatia evapora come fosse un lusso inutile.

Il ragazzo della Bocconi adesso deve imparare una vita nuova. Loro dovranno guardare in faccia l’abisso che hanno creato.

E noi? Noi dobbiamo decidere se limitarci a indignarci — o se finalmente riconoscere che questa ferita riguarda la nostra cultura, la nostra educazione, la nostra idea di libertà.

Milano è una grande città. Ma una città è davvero grande solo se sa proteggere i fragili. E quella notte, il 12 ottobre, Milano non lo ha fatto.