Nel cuore affamato e devastato di Gaza, un’accusa scuote le coscienze e riporta alla mente i fantasmi più oscuri della guerra: pillole di ossicodone, potente oppioide, sarebbero state trovate all’interno di sacchi di farina provenienti da centri di aiuto legati a Israele e Stati Uniti. Tra richieste di verità, sospetti di propaganda e l’ombra storica dell’uso delle droghe come arma, la questione solleva interrogativi morali e politici sul limite oltre il quale anche la solidarietà può essere strumentalizzata.
Sembra un ritorno a tempi remoti, a un’epoca in cui le droghe venivano usate non per fuggire dalla guerra, ma per alimentarla. Eppure l’accusa lanciata pochi giorni fa dal governo di Gaza — e rilanciata con immagini forti e parole ancora più dure — riporta alla mente uno spettro inquietante: quello dell’uso delle sostanze psicoattive come strumento bellico, arma subdola per corrompere i corpi, fiaccare le menti, disarticolare la resistenza morale e sociale di un popolo.
Il fatto è noto: il 27 giugno, sul canale ufficiale dell’Ufficio stampa di Hamas, è stata diffusa la notizia del presunto ritrovamento di pillole narcotiche — ossicodone — all’interno di sacchi di farina distribuiti nella Striscia di Gaza come aiuti umanitari da centri legati a Israele e agli Stati Uniti. “Trappole della morte”, li definisce senza mezzi termini il comunicato. La foto diffusa il 2 luglio mostra alcune compresse bianche e rosa adagiate su un foglio, con la didascalia che attribuisce il ritrovamento a un cittadino di Deir al-Balah.
La Gaza Humanitarian Foundation, l’organizzazione che si occupa della distribuzione degli aiuti umanitari, ha subito negato ogni responsabilità, ribadendo che «la farina distribuita è confezionata commercialmente» e che nessun pacco già aperto può essere consegnato.
Un’accusa antica, e sempre inquietante
Nel corso della storia, la droga come strumento di guerra è più di un mito. È stata una strategia. A metà Ottocento l’Impero britannico venne accusato di aver fomentato la dipendenza da oppio nella popolazione cinese, provocando due guerre e ridefinendo gli equilibri geopolitici in Asia. Durante la Guerra fredda, i servizi segreti americani condussero esperimenti su civili inconsapevoli con LSD e altre sostanze psicotrope, immaginando persino — secondo documenti declassificati — di contaminare gli acquedotti delle città sovietiche in caso di guerra totale.
L’idea che indebolire mentalmente il nemico sia un vantaggio strategico non è nuova. Ma è terribilmente attuale. Perché la guerra oggi non è più soltanto una questione di carri armati, ma di immaginari e sopravvivenze sociali. E l’arma più efficace è quella che non si vede.
Gaza, tra dolore reale e caos narrativo
In una Striscia di Gaza lacerata, distrutta, affamata e assediata, la verità è la prima vittima del conflitto. La circolazione degli aiuti umanitari, già di per sé difficile, si muove lungo rotte controllate da attori diversi: forze israeliane, enti umanitari privati, gruppi armati locali, milizie parallele.
Secondo diverse fonti, i sacchi di farina coinvolti nel presunto caso di ossicodone proverrebbero da depositi controllati da milizie rivali di Hamas, in particolare il gruppo di Yasser Abu Shabab, attivo a Rafah e ritenuto in rapporti ambigui con il governo israeliano. Clan accusati da anni di gestire traffici di droga e farmaci psicoattivi attraverso i tunnel di contrabbando che collegano Gaza all’Egitto.
In questo intrico di interessi, è difficile stabilire l’origine reale delle pillole fotografate. Alcuni esperti mettono in dubbio la plausibilità stessa dell’accusa. L’ossicodone, spiegano tossicologi come Salvatore Giancane, non è una sostanza particolarmente adatta a un uso bellico diretto: è poco potente rispetto ad altre, come il fentanyl, e in forma di pillola intera ha scarso effetto se cotta o miscelata con la farina. È più verosimile — ipotizza — che si tratti di contrabbando mascherato, e non di un tentativo organizzato di narcotizzare una popolazione.
Propaganda o verità? Il confine sfocato della guerra moderna
La gravità del sospetto, tuttavia, non va minimizzata. Non perché sia già provato, ma perché rivela la soglia di sfiducia assoluta che oggi divide i popoli coinvolti nel conflitto. Quando ogni sacco di farina può diventare un’arma potenziale, è segno che la guerra ha invaso non solo i corpi, ma l’anima stessa delle relazioni umane.
La narrazione della “droga nei viveri” può essere letta come propaganda. Ma è anche l’indice di una frattura culturale, antropologica, spirituale. In un contesto in cui la fame si intreccia alla paura, la necessità alla diffidenza, l’aiuto alla manipolazione, ogni gesto perde innocenza.
Un appello alla verità, anche sotto le bombe
Non spetta ai giornali né ai governi stabilire l’origine di quelle pillole, ma spetta alla comunità internazionale garantire trasparenza, verifiche indipendenti, corridoi umanitari reali. L’umanità di un popolo non può essere oggetto di sospetto, né la carità può diventare occasione di conflitto.
Le guerre si combattono anche con la memoria. E la Storia ci insegna che l’uso delle droghe come arma non è un’invenzione contemporanea. È una tentazione ricorrente, tanto più forte quanto più la guerra si sposta dai campi di battaglia ai nervi, al desiderio, alla coscienza.
Nel cuore di questa tragedia, resta una domanda antica e decisiva: che uso vogliamo fare della nostra scienza, della nostra medicina, della nostra umanità?
La risposta, oggi come ieri, segnerà il confine tra civiltà e barbarie.