Il 2025 ha segnato un punto di rottura nell’aiuto umanitario globale. Lo smantellamento dell’USAID deciso dall’amministrazione Trump, con l’impronta ideologica di Elon Musk, ha lasciato migliaia di programmi sanitari, alimentari e di sviluppo senza il principale donatore mondiale. Le ONG parlano di un anno “catastrofico”, con rifugiati Rohingya ridotti a sopravvivere con tre dollari al mese, bonifiche di mine sospese in Cambogia e Laos, e un Myanmar sempre più isolato anche nelle comunicazioni.

In questo vuoto inatteso si stanno muovendo nuovi protagonisti.

La Cina, da anni in crescita come attore della cooperazione internazionale, ha aumentato i fondi e attivato la propria agenzia di aiuti (CIDCA). I suoi interventi restano selettivi e legati a interessi strategici, ma in contesti come Myanmar o Afghanistan rappresentano spesso l’unico canale operativo. “Lì dove l’Occidente non può entrare, la Cina ha influenza”, riconosce Filippo Grandi dell’UNHCR.

Accanto a Pechino, si muove il Giappone, oggi il Paese più affidabile per i governi asiatici secondo i sondaggi regionali. Tokyo, forte della sua lunga storia di cooperazione infrastrutturale e di un soft power radicato, viene vista come alternativa democratica alla presenza cinese. E proprio il ritiro americano potrebbe spingerla a riassumere un ruolo più forte e più visibile nella regione.

Resta una domanda cruciale: chi garantirà, nel futuro, un sostegno stabile alle popolazioni più fragili?

Il mondo non può permettersi che la solidarietà diventi terreno di competizione geopolitica o venga lasciata alle logiche del mercato. Serve una responsabilità condivisa, dove le potenze asiatiche si assumano un ruolo maggiore ma dove, allo stesso tempo, l’eredità cooperativa dell’Occidente non venga abbandonata.

Perché quando l’aiuto umanitario arretra, non sono i governi a pagare il prezzo: sono i poveri, i profughi, le vittime delle guerre dimenticate. Piccole vite che non possono aspettare le strategie dei grandi.