Anniversario pubblicazione delle Costituzioni Dogmatiche Dei Verbum e Sacrosantum Concilium
Ci sono date che non fanno rumore, ma cambiano il respiro del mondo. Il 18 novembre 1963 è una di queste. In quel giorno, nel clima ancora fragile e teso del Concilio Vaticano II, la Chiesa approvava Dei Verbum, la costituzione dogmatica sulla Rivelazione. Pochi giorni prima aveva salutato la pubblicazione della Sacrosanctum Concilium, il grande testo sulla liturgia. E insieme — quasi come due polmoni riaperti — questi documenti hanno ridato fiato al cattolicesimo del nostro tempo.
Non sono state fotografie a fissare quel momento, ma parole. Parole latine, scelte una a una dopo dibattiti infuocati, dopo timori, resistenze, speranze. Parole che hanno permesso alla Chiesa di fare ciò che il Vangelo chiede da sempre, ma che la storia rende ogni volta necessario reinventare: tornare alla sorgente.
Sacrosanctum Concilium e Dei Verbum non sono testi gemelli, ma sono nati da una stessa intuizione: che la fede non può vivere senza la Parola, e la Parola non può respirare senza una liturgia viva. La prima ha aperto lo spazio concreto dell’incontro, restituendo al popolo cristiano la dignità dei gesti e delle lingue. La seconda ha custodito la sorgente stessa della fede, spiegando che la Rivelazione non è un messaggio caduto dal cielo, ma la storia viva di un Dio che parla, accompagna, si dona, si lascia leggere.
Il risultato, a sessant’anni di distanza, è sotto gli occhi di tutti. La Bibbia è diventata nutrimento quotidiano per il popolo di Dio, non più un libro riservato agli specialisti. Le liturgie hanno ritrovato la forza di un linguaggio comprensibile e la bellezza di una partecipazione che è insieme interiore e comunitaria. La Parola e l’altare si sono avvicinati, come due fratelli separati troppo a lungo.
E tuttavia, il 18 novembre 1963 non fu un trionfo indisturbato. Fu un passaggio fragile. Per molti padri conciliari, soprattutto dell’area latina, significò affrontare la paura più grande: aprire una porta senza sapere come sarebbe stata attraversata. Per altri significò la gioia di vedere riconosciuta la sete profonda del popolo cristiano: capire, partecipare, ascoltare, rispondere.
Oggi, ripensando a quella data, possiamo renderci conto che il Concilio non ha soltanto riformato la liturgia. Ha riformato la condizione stessa dell’ascolto. Ha chiesto alla Chiesa di non essere più spettatrice della Parola, ma sua dimora. Ha permesso di ritrovare il linguaggio dell’essenzialità, quella lingua che non invecchia e non passa.
In un tempo come il nostro, spesso segnato da polarizzazioni e nostalgie, il 18 novembre 1963 ci ricorda una verità semplice e luminosa: la Chiesa vive quando si lascia convertire dalla Parola e quando celebra non sé stessa, ma il Mistero. Vive quando ascolta insieme alla sua gente. Vive quando permette al Vangelo di essere non solo proclamato, ma respirato.
È questo il lascito più grande di quelle due costituzioni: aver restituito alla fede la forma di un incontro. Aver ricordato che la Rivelazione non è un museo e la liturgia non è un teatro. Sono il cammino di un Popolo che, da secoli, procede a fatica ma non smette di cercare.
Forse è per questo che il 18 novembre non compare nelle grandi cronache della storia universale. Eppure, per la vita della Chiesa, resta un giorno decisivo: il giorno in cui abbiamo imparato di nuovo a dire Amen non per abitudine, ma per appartenenza.
Il giorno in cui la Chiesa, riaprendo la Scrittura e il culto, ha riaperto anche sé stessa.
