Mentre l’Europa si interroga su minacce reali e percepite, il governo italiano rilancia la spesa militare. Ma con quali risorse? E contro quale nemico, se la Russia è impantanata in Ucraina?
In un clima da mobilitazione permanente, l’Italia si appresta a discutere a Palazzo Chigi con Mark Rutte, prossimo Segretario Generale della NATO, l’ennesimo adeguamento delle proprie ambizioni militari agli standard dell’Alleanza. L’incontro, fortemente voluto da Giorgia Meloni, giunge in un contesto dove il linguaggio bellico ha invaso la retorica politica e la spesa per la difesa è diventata la nuova cartina di tornasole dell’affidabilità euro-atlantica.
L’obiettivo, non ancora ufficiale ma già agognato in certi ambienti strategici, sarebbe quello di portare le spese militari italiane al 2,5% del PIL, con proiezioni verso un 5% in caso di escalation maggiore. Un livello che, oggi, sembra del tutto insostenibile per un Paese che fatica a garantire i servizi essenziali, con una sanità al collasso, un sistema scolastico sotto-finanziato e un welfare sempre più eroso. In questo quadro, parlare di “riarmo” suona come una fuga in avanti senza coperture e, soprattutto, senza un progetto-Paese.
La NATO rilancia, l’Italia annuisce
La visita di Rutte non è una semplice formalità diplomatica: si tratta di un banco di prova per l’Italia, chiamata a dimostrare la propria “serietà” agli occhi degli alleati. In realtà, lo scarto tra parole e risorse è enorme. Oggi l’Italia investe circa 30 miliardi l’anno nella difesa (1,5% del PIL). Portarla al doppio significherebbe raddoppiare questa cifra a scapito di tutto il resto: scuola, sanità, trasporti, ambiente, natalità, casa, famiglie.
Il paradosso è che la narrazione emergenziale della minaccia russa — vera sul piano ucraino ma debole su scala continentale — viene usata per giustificare un modello di “warfare state” che cannibalizza ogni altro settore. Eppure, la Russia non ha sfondato in Ucraina dopo oltre due anni di conflitto e mostra crescenti difficoltà strategiche, logistiche e demografiche. Davvero è questa la superpotenza che dovrebbe invadere Berlino o minacciare Roma?
Una minaccia sopravvalutata?
Il vero nodo è che la minaccia russa sta diventando un costrutto narrativo più che militare, funzionale alla tenuta del fronte interno europeo e all’unità atlantica. Putin è certo un attore aggressivo, ma immaginare una Russia in grado di affrontare simultaneamente la NATO — cioè 30 Paesi, con un PIL combinato 15 volte superiore al suo — rasenta l’ipotesi ideologica.
L’Europa, più che sotto attacco, è incagliata nella sindrome della guerra perpetua, che assorbe risorse, logora la politica estera e anestetizza le riforme interne. Siamo di fronte a un mutamento genetico dell’Unione: da “soft power” a “barricata armata”, mentre l’identità sociale e culturale si sfilaccia.
Warfare contro welfare
La vera emergenza italiana non è la guerra in Ucraina, ma l’implosione demografica, la fuga dei giovani, la povertà educativa e la fragilità sanitaria. Mentre si tagliano posti letto e si allungano le liste d’attesa, si annunciano nuove commesse per sistemi d’arma. Mentre si parla di aumentare il tasso di natalità, si tolgono risorse ai congedi parentali e agli asili nido. Mentre si invoca l’innovazione, si mortificano scuola, ricerca e università.
Questa deriva, che non riguarda solo l’Italia ma l’intera Unione, risponde a una logica geopolitica che subordina ogni investimento alla sicurezza, ma che in realtà sacrifica la coesione interna per un ruolo esterno tutto da dimostrare. Il paradosso è che si militarizza la società senza mai spiegare quale sia il progetto politico per cui si chiede questo sacrificio.
Una strategia senza Paese
Nel rilancio della spesa militare manca un tassello fondamentale: la visione. Se non si sa dire per chi e per cosa si combatte, si finisce per combattere per combattere, in una spirale tecnocratica dove il valore della forza soppianta quello della giustizia, e il concetto di “interesse nazionale” diventa un mantra vuoto.
In conclusione, mentre ci si affanna a cercare fondi per nuovi sistemi d’arma, l’Italia reale perde i suoi sistemi di protezione: casa, lavoro, scuola, salute. Se davvero la democrazia va difesa, bisognerebbe iniziare non dai carri armati, ma dalle culle, dai salari, dai quartieri dimenticati.
Perché non c’è sovranità senza cittadini. E non c’è sicurezza senza futuro.