Succede sempre così: finché il potere non ti prende di mira, “va tutto bene”. Era così ai tempi di Mussolini, quando le piazze erano piene di mani alzate e sorrisi composti… e solo quando la tessera del partito non bastava più a proteggerti, scoprivi che forse il Duce non era proprio infallibile.
Oggi, dall’altra parte dell’oceano, lo schema si ripete con Donald Trump. Jimmy Kimmel, volto storico della TV americana, da anni gli fa il verso. Il presidente, invece di ridere, ha preso nota. Dopo aver brindato alla cacciata di Stephen Colbert, ha promesso che il prossimo sarà proprio lui: “meno talento del suo pubblico”, ha scritto su Truth, il social che è una specie di bar dello sport con codici penali allegati.
Kimmel, per sicurezza, ha tirato fuori la carta jolly: la cittadinanza italiana. Grazie alla nonna Edith, emigrata da Candida (Avellino) dopo il terremoto dell’800, il conduttore ha in tasca un passaporto nuovo di zecca. Ironia della sorte: i suoi antenati erano scappati dall’Italia per cercare futuro, lui ci torna per cercare libertà di parola.
Il parallelo è amaro. Anche da noi, negli anni bui, c’era chi lodava il regime e chi taceva per convenienza. Poi, appena toccati, si scopriva che l’idillio era finito. In America, oggi, si respira la stessa aria: finché ridi delle battute del capo, bene; se inizi a farle tu, diventi un problema da “risolvere”.
Kimmel ha i mezzi per cambiare Paese. Altri no. E il punto è proprio qui: la libertà di parola non può dipendere dal tuo conto in banca o dal cognome sulla carta d’identità. Quando un leader considera il dissenso un crimine personale, non è questione di simpatie politiche: è questione di democrazia. E il silenzio dei molti è sempre il miglior alleato di chi sta in cima.