La telefonata tra papa Leone XIV e Vladimir Putin, avvenuta nel pomeriggio di giovedì, è un gesto che merita più di un’annotazione diplomatica: è un segnale. Non decisivo, certo. Ma importante, sì. È la prima volta che il Pontefice e il presidente russo tornano a parlarsi direttamente dopo l’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022, segnando un possibile cambio di passo nei fragili equilibri del conflitto. Non si è trattato solo di un cordiale scambio tra capi di Stato: è stato un atto pastorale, politico e profetico.
Nella grammatica della diplomazia vaticana, i silenzi pesano quanto le parole. E quando si rompe il silenzio, come in questo caso, è per affermare la volontà di una presenza, non di una neutralità. La Santa Sede, da sempre attenta a non assumere posizioni di parte nei conflitti, non rinuncia però a esercitare un’opera di mediazione ispirata al Vangelo. Papa Leone XIV, raccogliendo l’eredità di papa Francesco, prosegue in quella che possiamo definire una “diplomazia della misericordia” – paziente, insistente, realista, ma mai rassegnata.
Nella telefonata, il Papa ha ribadito tre elementi-chiave: l’urgenza del dialogo, la necessità di gesti concreti che aprano spiragli di pace, e il richiamo ai valori cristiani comuni come bussola etica per uscire dall’impasse. Ha evocato il Patriarca Kirill, ringraziandolo, ma anche implicitamente invitandolo a un supplemento di responsabilità nella testimonianza evangelica, che non può essere compatibile con la benedizione delle armi o con il silenzio complice.
Come nel passato, anche questa volta il Vaticano si muove sul terreno della “diplomazia umanitaria”. L’azione del cardinale Zuppi – già mediatrice di scambi di prigionieri e del ritorno di bambini deportati – è stata richiamata nel colloquio come valore e come metodo. Non è poco. Ma ora, grazie a Leone XIV, si apre un ulteriore fronte: quello del dialogo diretto tra la Santa Sede e il Cremlino, senza passaggi intermedi. È un canale da coltivare con discrezione e coraggio.
Certo, nessuno può farsi illusioni. Il contesto resta incandescente. Lo stesso giorno della telefonata con il Papa, Putin ne ha avuta un’altra con il presidente americano Donald Trump, in un tono ben meno disteso, tra minacce di ritorsione e tentativi di evitare l’allargamento del conflitto. La guerra resta in corso, e i colloqui russo-ucraini a Istanbul si sono arenati. La telefonata del Papa non è un armistizio. Ma è forse una scintilla.
Il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, ha parlato con lucidità e amarezza: “Provo una enorme tristezza che non si riesca a stabilire un contatto diretto tra le due parti per cominciare a vedere un po’ la fine di questa guerra”. La Santa Sede offre uno spazio, una disponibilità, una garanzia di imparzialità. Ma, ha aggiunto Parolin, “non credo ci sia speranza che questa possibilità venga sfruttata”. È qui che entra in gioco la forza morale del Papa: non si arrende.
Papa Leone XIV non è ingenuo. Sa che il Vangelo non è una strategia di dissuasione, né una piattaforma negoziale. Ma sa anche che la voce di Pietro – quando parla come pastore, non come attore geopolitico – può farsi ascoltare anche nei palazzi del potere più ostili. I suoi appelli dalla finestra del Regina Caeli non sono solo gesti rituali: sono grida di umanità che sfidano la logica della guerra. Le sue parole sono radicali nella loro semplicità: “Siano liberati tutti i prigionieri, si torni a parlare di pace giusta e duratura”.
Il dialogo tra il Papa e Putin si muove in una zona grigia tra la speranza e il rischio. Ma è l’unica zona in cui oggi può germogliare qualcosa. Non sarà la Santa Sede a firmare un cessate il fuoco, ma potrà essere il piccolo seme che aiuta a farlo nascere. Come accadde nel passato con Giovanni XXIII ai tempi di Cuba o con Giovanni Paolo II in Iraq. Per questo, la telefonata di Leone XIV a Putin – apparentemente solo un gesto cordiale – è in realtà un messaggio al mondo: la pace ha bisogno di voce, di contatto, di insistenza. E il Papa ha scelto, ancora una volta, di non tacere.
Una telefonata non cambia il corso della guerra, ma può cambiare il cuore di chi la guida. E in tempi in cui i leader parlano più ai generali che ai popoli, che un uomo vestito di bianco parli con tutti è già una rivoluzione.