Un anno dopo il ritorno alla Casa Bianca, Donald J. Trump ha fatto ciò che aveva promesso: cambiare verso. Non solo le priorità, ma l’idea stessa di che cosa sia “governare” negli Stati Uniti. Il punto non è se piaccia o no: il punto è che, in dodici mesi, la politica americana ha assunto la forma di una leva d’emergenza tirata a comando, anche in assenza di una guerra civile o di una depressione economica. E quando la leva diventa routine, la democrazia smette di oscillare come un pendolo e comincia a deformarsi come un metallo sotto pressione.
La frontiera come manifesto
L’immigrazione è stata il pilastro narrativo e operativo. I numeri, qui, sono l’argomento: a febbraio 2025 la Border Patrol ha registrato 8.347 arresti/“apprehensions” al confine sud-ovest (meno di 300 al giorno), e l’amministrazione ha rivendicato ulteriori “record low” nel 2025.
Sul versante interno, l’apparato si è mosso in due direzioni: deportare e spingere all’auto-deportazione. A dicembre il governo ha addirittura triplicato l’incentivo alla “self-deportation” a 3.000 dollari, con volo pagato, rivitalizzando l’app “CBP Home” (ex CBP One) in funzione opposta rispetto all’era Biden.
Nel frattempo i dati pubblici su arresti e detenzioni ICE mostrano un elemento politicamente esplosivo: cresce la quota di persone senza precedenti penali finite nelle retate e nei centri, con una detenzione che a metà dicembre ha superato 68.400 persone, livello record.
Lo Stato federale “dimagrito” a colpi d’accetta
Trump aveva promesso di “demolire lo stato profondo”. L’operazione, nella pratica, è diventata un ridimensionamento massiccio dell’amministrazione civile: l’Office of Personnel Management ha indicato che nel 2025 circa 317.000 dipendenti federali hanno lasciato il lavoro pubblico, a fronte di circa 68.000 assunzioni.
Il dato non è neutro: mentre l’apparato coercitivo sull’immigrazione si espande, si assottigliano — secondo molte ricostruzioni giornalistiche — funzioni di controllo, ricerca, prevenzione e resilienza. È una scelta: meno “servizi”, più “forza”. E quando l’ago della bilancia si sposta così, la fiducia istituzionale non si ripara con uno slogan.
Tariffe: il mondo come negoziato permanente
Sul commercio, l’America di Trump ha provato a riscrivere la grammatica del dopoguerra: tariffe come strumento totale, economico e geopolitico. Secondo il Budget Lab di Yale, nel 2025 l’aliquota tariffaria effettiva per i consumatori è arrivata a circa 18% (con oscillazioni durante l’anno), il livello più alto dal 1934.
Non è solo protezionismo: è un messaggio al sistema globale — “il mercato è politica” — con l’effetto collaterale inevitabile di incertezza, costi e contenziosi (anche costituzionali) sulla base giuridica usata per imporre i dazi.
Le guerre, la pace e la tentazione della scorciatoia
All’estero, la promessa era “meno guerre, più accordi”. Il risultato appare più ambiguo: diplomazia muscolare, pressione sugli alleati, e l’idea che la forza — militare o economica — sia un linguaggio più rapido del diritto. Ma la cifra più inquietante dell’anno non arriva da un trattato: arriva dal mare.
Dal 2 settembre 2025 in poi, gli Stati Uniti hanno condotto una campagna di attacchi contro imbarcazioni indicate come legate al narcotraffico: 29 strike, almeno 105 morti.
È una svolta concettuale prima ancora che operativa: la guerra alle droghe reinterpretata come conflitto armato, con tutte le contestazioni giuridiche — interne e internazionali — che questo comporta.
Truppe nelle città: l’emergenza come stile
Sul suolo domestico, il “ritorno dell’ordine” ha assunto un’immagine precisa: soldati e guardie nazionali nelle strade. A Los Angeles, un giudice federale ha ordinato la fine della missione e il ritorno del controllo allo Stato, contestando l’idea di una federalizzazione prolungabile quasi indefinitamente.
E quando l’orizzonte si è spostato su Chicago, la Corte Suprema ha bloccato — per ora — il tentativo di dispiegamento, segnando un limite giuridico (e simbolico) all’espansione dell’uso delle truppe per funzioni di ordine pubblico.
La domanda finale: reversibile o irreversibile?
La politica americana è abituata al pendolo. Ma qui la metafora è insufficiente. Perché un pendolo presuppone che il punto d’attacco resti fermo. In questo primo anno, invece, Trump ha lavorato proprio sul punto d’attacco: frontiera, burocrazia, dazi, forza, poteri d’emergenza.
E allora la domanda non è se Washington “tornerà com’era”. È se gli Stati Uniti accetteranno come normale una presidenza che governa come se ogni dossier fosse un’eccezione e ogni eccezione una prassi.
