La diplomazia resta sullo sfondo, mentre i due fronti alzano la posta con attacchi che colpiscono economie e civili. Il rischio è allontanare la pace.

Mentre a livello diplomatico si intravedono timidi spiragli di trattativa, sul terreno la guerra tra Russia e Ucraina conosce una nuova escalation. Kiev ha intensificato la sua strategia di logoramento con attacchi mirati contro le infrastrutture energetiche russe: droni di nuova generazione hanno colpito almeno dieci raffinerie, riducendo del 17% la capacità di trasformazione del greggio e provocando carenze di carburante in Crimea e in Siberia. Le immagini satellitari confermano danni ingenti a impianti cruciali come quelli di Ryazan e Saratov.

Mosca ha risposto con una delle offensive aeree più violente degli ultimi mesi. Dopo ondate di droni Shahed, usati anche come “esche”, si sono abbattuti su Kiev missili ipersonici Kinzhal, cruise e Kalibr partiti dal Mar Nero. Quartieri residenziali sono stati colpiti, intere palazzine sventrate, linee ferroviarie interrotte. Un’azione dal forte impatto psicologico, destinata più a terrorizzare la popolazione che a ottenere vantaggi militari decisivi.

Siamo davanti a un gioco al rialzo che mostra la fragilità di entrambe le parti. L’Ucraina, in difficoltà sul fronte, punta a colpire le vulnerabilità economiche del Cremlino; la Russia, incapace di chiudere il conflitto, risponde con la pressione sui civili. Ne esce un quadro in cui nessuno vince davvero e la pace sembra sempre più lontana.

Resta aperta la domanda morale che interpella anche la coscienza cristiana: fino a che punto è legittimo colpire strutture vitali per un popolo? E come giustificare la rappresaglia che semina terrore fra gli innocenti? La diplomazia tace in pubblico ma lavora sottotraccia. Intanto, i cieli di Kiev e le raffinerie russe continuano a bruciare: i fuochi della guerra restano accesi, e ogni giorno che passa la pace appare più urgente e più difficile.