Nel giorno della Conferenza per la Ricostruzione, piovono droni su Kiev. E mentre l’Occidente si illude nei negoziati, Mosca detta l’agenda della guerra

Mentre a Roma si inaugura con toni solenni la Conferenza internazionale sulla ricostruzione dell’Ucraina, a Kiev piovono droni e missili. Due morti, tredici feriti, case sventrate, fiamme nel centro storico. A Pechersk, nel cuore della capitale, le sirene non smettono di ululare. È l’ennesima notte sotto le bombe: la guerra non è finita, né in stallo. Continua, si espande, si intensifica.

Eppure, nei salotti della diplomazia e nei forum multilaterali, c’è chi finge che si possa già parlare di “ripresa”, come se il conflitto fosse ormai una faccenda da gestire con fondi, appalti e memorandum d’intesa. Un’illusione grave, e forse colpevole, che favorisce il gioco di Putin: annunciare di voler trattare mentre avanza e distrugge, insanguinando Kharkiv, Zaporizhzhia e tutto il Donbass a colpi di missili e carne da macello.

Lo denuncia con parole nette il vescovo latino di Kharkiv-Zaporizhzhia, Pavlo Honcharuk, che da settimane vive tra sirene e raid aerei: «A Kharkiv si parla russo. Eppure Mosca ci bombarda, ci uccide, ci tratta da traditori. Non ha mai voluto proteggere nessuno. Vuole solo nuove terre». È una testimonianza cruda e limpida, quella che Honcharuk ha portato in questi giorni in Italia: la guerra è viva. Le case cadono. I morti aumentano. E l’Occidente si sta stancando.

Il dialogo come alibi

Sul piano internazionale, il paradosso è evidente: mentre la Russia intensifica gli attacchi, Mosca dichiara a parole di voler «un negoziato» e trova in molti ambienti europei, e non solo, orecchie disposte ad ascoltare. Il vertice ASEAN in Malesia registra un evento ritenuto “promettente”: l’incontro tra il segretario di Stato americano Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Lavrov. Ma basta osservare la realtà: sotto i tavoli del dialogo scorre il sangue.

Lo dice lo stesso vescovo Honcharuk: «Putin ha lanciato l’amo e l’Occidente ha abboccato. Ma la Russia vuole solo prendere tempo, avanzare e far credere di essere in cerca di pace». Il Papa, Leone XIV, lo ha capito. Ha incontrato Zelensky, ha offerto la mediazione della Santa Sede, ha denunciato apertamente l’aggressione russa, ha persino ammonito il patriarca Kirill, diventato l’incensiere sacro di una guerra sporca. Il vescovo ucraino riconosce l’impegno del Pontefice: «È con noi perché siamo le vittime, ma prega anche per il nemico: perché il Signore vuole la conversione del peccatore».

La stanchezza dell’Occidente

Ma intanto gli aiuti umanitari calano, denuncia la Chiesa ucraina. E la sensazione è che l’Europa cominci a stufarsi. La “stanchezza della guerra” è la nuova forma dell’indifferenza. Si cerca un armistizio di comodo, un compromesso diplomatico, magari sulla pelle di chi continua a morire. Si investe nella “ricostruzione” mentre le città vengono rase al suolo, come se bastasse un rendering da presentare ai donatori per chiudere il conflitto.

Il vescovo Honcharuk racconta di migliaia di persone senza casa, senza lavoro, senza pane né medicine, costrette a fuggire con due buste in mano e i ricordi di una vita. La guerra non è finita. Ma l’Occidente la vorrebbe archiviare.

Il prezzo dell’ambiguità

E intanto Mosca detta l’agenda. In Ucraina e nella diplomazia internazionale. Mentre Kiev è sotto attacco, Lavrov stringe mani e rilascia dichiarazioni. La Russia continua a occupare villaggi, a uccidere, a deportare. La diplomazia – come spesso accade – rischia di diventare la maschera pulita della violenza sporca. E chi parla troppo in fretta di “negoziati”, dovrebbe almeno ascoltare chi sta sotto le bombe.

Per questo, oggi più che mai, serve chiarezza. E serve coraggio. Non c’è una “pace equidistante” tra aggressore e aggredito. C’è un popolo sotto assedio e un impero in armi. C’è chi cerca un’uscita di scena diplomatica, e chi combatte con la schiena dritta, sapendo che ogni trattativa firmata sotto i raid vale quanto un accordo scritto sulle macerie.

La pace vera non si costruisce con il cinismo

La pace non è un equilibrio di interessi, ma una giustizia da restaurare. Leone XIV lo ha detto chiaramente: si negozia per la pace, non per il silenzio. Ma la pace, se è vera, deve partire dalla voce delle vittime. E oggi, quella voce, si chiama Ucraina.

Non basta una conferenza internazionale in un palazzo romano. Non basta distribuire fondi, firmare accordi, promettere ricostruzioni. Occorre denunciare l’ingiustizia, senza ambiguità. Occorre sostenere chi resiste, senza cedere alla tentazione del compromesso. Occorre non chiudere gli occhi mentre un popolo brucia.

Kharkiv, Zaporizhzhia, Kiev non sono “dossier”. Sono città vive, colpite, lacerate. Chi costruisce la pace vera non può ignorarlo. E non può fingere che il conflitto sia già alle spalle. La guerra è adesso. E la scelta è tra chi si volta dall’altra parte e chi sceglie di restare umano.