Dopo il colpo alla Family, un nuovo drone ha centrato la Alma. La versione tunisina del “fuoco accidentale” vacilla: è chiaro che qualcuno vuole fermare i 250 attivisti diretti a Gaza. Ma la solidarietà resiste più dei droni.
Il secondo attacco in due giorni contro le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, questa volta contro la Alma battente bandiera britannica, segna un punto di non ritorno. Non si tratta più di un “incidente” o di una colpa attribuita frettolosamente a un accendino – come sostenuto dalle autorità tunisine dopo l’attacco alla Family. La ripetizione del medesimo schema, con droni che colpiscono navi ormeggiate nel porto di Tunisi, indebolisce drasticamente la versione ufficiale e conferma che ci troviamo davanti a una vera e propria operazione di sabotaggio.
La Tunisia, Stato cuscinetto tra Mediterraneo e Nordafrica, non può permettersi di apparire complice per omissione. Negare l’evidenza, soprattutto quando testimoni hanno visto altri droni in volo, rischia di minare la fiducia nelle istituzioni locali proprio mentre il porto di Tunisi si è trasformato in un crocevia di solidarietà, accogliendo centinaia di attivisti e semplici cittadini accorsi per sostenere la missione.
Il bersaglio è chiaro: non le navi in sé, ma l’idea che rappresentano. Più di 250 persone provenienti da 45 Paesi hanno scelto di salpare per Gaza con aiuti umanitari, rompendo simbolicamente – e forse concretamente – l’assedio israeliano. Gli attacchi con droni, oltre a danneggiare le imbarcazioni, mirano a logorare psicologicamente i partecipanti: ricordare loro che nessuno è al sicuro, che l’occhio di Tel Aviv o dei suoi alleati può colpire anche in acque straniere, a centinaia di chilometri da Gaza.
Ma il risultato sembra essere opposto. Lo raccontano le voci che si levano dal porto: “Non ci fermeranno”, dicono i partecipanti. Alcuni riconoscono la paura, ma la trasformano in coraggio collettivo. Altri, come il palestinese Sami Al Soos, parlano apertamente di genocidio e affermano che questo non farà che rafforzare la loro determinazione.
E qui sta il nodo: questi episodi non si spiegano solo come atti di guerra a distanza, ma come parte di una strategia che cerca di isolare la causa palestinese, impedendole di guadagnare nuova visibilità internazionale. Perché se un convoglio di oltre 40 navi riuscisse davvero a raggiungere Gaza, si aprirebbe una breccia non solo nel blocco israeliano, ma anche nel silenzio della comunità internazionale.
Il Mediterraneo, culla di incontri e scontri, diventa così ancora una volta frontiera di ingiustizia. L’Africa del Nord, chiamata in causa suo malgrado, rischia di farsi teatro di una guerra che non è la sua, ma che la attraversa. E i droni – simbolo del potere militare disincarnato, capace di colpire senza guardare negli occhi – rivelano quanto lontano sia ormai il sogno di una soluzione politica.
La verità, oggi, è che non ci troviamo di fronte a fuochi accidentali. A bruciare non sono soltanto i ponti delle navi, ma la credibilità di governi che fingono di non vedere e la coscienza di un’Europa che continua a tacere. La Flottiglia della Libertà, invece, resta in piedi: ferita ma non spezzata. È il segno che, malgrado tutto, c’è ancora chi sceglie di resistere, non con le armi ma con la solidarietà.