Tre anni dopo l’insediamento, il governo guidato da Giorgia Meloni si trova nel punto più delicato del suo mandato: non più il tempo delle promesse, ma quello dei bilanci.

A metà legislatura, la fotografia è complessa. Alcune promesse sono diventate provvedimenti, altre restano sulla carta, altre ancora si sono trasformate in qualcosa di diverso da ciò che era stato annunciato.

Come in ogni governo, la realtà ha corretto la narrazione. Ma in questo caso la distanza tra intenzioni e risultati dice qualcosa di più profondo: la fatica di governare un Paese che cambia più lentamente della politica.

Secondo un’analisi complessiva sulle cento promesse contenute nel programma comune del centrodestra del 2022, solo una parte — poco più di un quinto — può dirsi pienamente mantenuta.

Circa sessanta risultano ancora in corso, una decina non hanno avuto seguito concreto e nove sono, di fatto, compromesse.

Numeri che raccontano un’Italia di cantiere, dove la discontinuità promessa rispetto ai governi precedenti è rimasta più un’intenzione che un segno tangibile.

Le luci del triennio

Fra i risultati effettivamente raggiunti, il governo rivendica con ragione alcune riforme strutturali.

La revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, negoziata con Bruxelles senza perdita di fondi, ha rappresentato un passo di stabilità amministrativa non scontato.

Sul fronte economico, il taglio del cuneo fiscale è stato reso strutturale e la riforma del fisco, insieme a una nuova “pace fiscale”, ha dato un po’ di ossigeno a imprese e famiglie.

La riorganizzazione del reddito di cittadinanza — sostituito dall’Assegno di inclusione e dal Supporto per la formazione e il lavoro — ha segnato un cambio di paradigma nel welfare, volto a responsabilizzare i beneficiari ma anche a rafforzare le politiche attive.

Nel frattempo, l’Assegno unico universale per i figli è stato potenziato e il marchio “Made in Italy” ha ottenuto nuove tutele, con un Ministero dedicato.

Sono risultati reali, non propaganda. Tuttavia, non bastano da soli a rispondere alle attese di rinnovamento civile e sociale che avevano accompagnato l’ascesa del governo Meloni.

I nodi ancora irrisolti

Le grandi riforme annunciate — giustizia, autonomia differenziata, riforma costituzionale — sono ancora in itinere.

La riforma della giustizia, in particolare, resta a metà strada: sono stati approvati alcuni correttivi sul penale e sul civile, ma il disegno più ambizioso, quello sulla separazione delle carriere, è ancora in discussione.

La promessa di estendere la flat tax a tutti i lavoratori autonomi con ricavi fino a 100 mila euro è rimasta sospesa.

E la riforma del premierato, che il governo ha scelto di portare avanti in forma diversa rispetto al programma (elezione diretta del presidente del Consiglio invece che del presidente della Repubblica), ha aperto un dibattito istituzionale che divide persino la maggioranza.

Anche il Ponte sullo Stretto di Messina, simbolo di un’Italia che si vuole “grande”, resta per ora sulla carta: progetto definitivo approvato, ma nessun cantiere aperto.

La transizione ecologica, infine, è rimasta un terreno di prudenza più che di visione: si è scelta una linea meno ambiziosa rispetto all’Europa, in nome della “realpolitik industriale”, ma a scapito del futuro climatico e dei territori più fragili.

Le contraddizioni

In altri ambiti, gli atti di governo hanno addirittura smentito gli impegni iniziali.

È il caso della pressione fiscale, che invece di scendere è salita, toccando nel 2025 il 42,8%.

O della riduzione dell’IVA sui prodotti per la prima infanzia, prima annunciata e poi cancellata.

La gestione dei migranti, con l’accordo con l’Albania, ha spostato il baricentro dall’accoglienza al rimpatrio, con risultati ancora incerti e contestati.

Sul fronte ambientale, la promessa del rimboschimento massiccio è stata ridimensionata, e il nodo delle concessioni balneari ha prodotto un compromesso scontento per tutti: le categorie, l’Europa e le comunità costiere.

A fronte di queste ambiguità, l’immagine di un governo “del fare” si scontra con la realtà di un Paese dove molto resta in sospeso.

Il rischio è che la “normalizzazione” diventi una forma di stallo: si governa, ma non si trasforma.

L’Italia che attende

Eppure il tempo della promessa non è finito.

Restano due anni di legislatura e un Paese che chiede riforme vere, non titoli di giornale.

Sul piano sociale, l’urgenza è quella di affrontare il declino demografico, il lavoro povero, la crisi della scuola e della sanità territoriale.

Sono le ferite strutturali di un’Italia che rischia di smarrire la fiducia nel futuro.

E se è vero che ogni governo deve fare i conti con limiti di risorse e vincoli europei, è altrettanto vero che la politica si misura anche nella capacità di dare un’anima alle scelte economiche.

Non basta mantenere i conti in ordine: serve un disegno di società.

Dal promettere al costruire

La premier Meloni continua a godere di un consenso personale alto, segno di un rapporto diretto con un elettorato che la percepisce come leader coerente e determinata.

Ma il consenso non è una riforma. È, piuttosto, un credito di fiducia che va restituito in opere e risultati.

Questi tre anni hanno mostrato un’Italia che si è stabilizzata dopo la pandemia e le crisi energetiche, ma che non ha ancora imboccato la via della giustizia sociale e dell’equità intergenerazionale.

Da qui la sfida dei prossimi due anni: passare dall’ordinario alla visione, dal calcolo alla speranza.

Perché — come ricorda la Dottrina sociale della Chiesa — la politica non è solo gestione, ma arte del bene possibile.

E il bene possibile, oggi, si misura nella concretezza delle riforme, ma anche nella capacità di tenere insieme crescita e dignità, impresa e solidarietà, efficienza e compassione.

Se questo governo saprà farlo, potrà dire di aver mantenuto la promessa più grande: quella di un’Italia più giusta, non solo più governata.