Sabato 25 ottobre, nella Basilica di San Pietro, si è celebrata — per la prima volta dal 2021 — una Messa secondo il rito anteriore al Concilio Vaticano II. L’evento, autorizzato da Papa Leone XIV come gesto di conciliazione nel contesto del Giubileo, ha acceso un dibattito che non è solo liturgico. Il gesuita Martin Pochon ha osservato, in un articolo apparso su La Croix, che dietro la questione rituale si nasconde una questione teologica radicale: a chi Cristo si è offerto nell’Ultima Cena?

Al Padre — come affermava il Concilio di Trento — o ai discepoli, come mostrano i Vangeli e la Prima lettera ai Corinzi? Questa domanda, apparentemente tecnica, tocca il cuore del cristianesimo: il modo in cui comprendiamo il mistero della Croce e la natura della Chiesa.

Dal sacrificio che sale al dono che discende

Il Concilio di Trento, nella sessione XXII (1562), dichiarava che Cristo, “nella notte in cui fu tradito, si offrì a Dio Padre come sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek”.

Da qui nacque la struttura teologica del sacrificio ascendente: il Figlio che offre se stesso al Padre, e il sacerdote che rinnova sacramentalmente quell’offerta.

Il gesto del celebrante “rivolto ad orientem”, lontano dal popolo, su un altare separato e rialzato, ha espresso per secoli questa visione verticale del mistero.

Ma la riforma liturgica del Vaticano II, recepita nel Messale di Paolo VI, ha inteso riscoprire il movimento opposto, quello discendente: il Figlio che si dona agli uomini.

La Cena del Signore non è la scena di un’offerta “a Dio”, ma il gesto in cui Dio si offre “agli uomini”, a tutti — anche ai peccatori, anche a Giuda.

Come ricorda Pochon, “il movimento è quello dell’Incarnazione: Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio” (Gv 3,16).

Il passaggio dall’altare come luogo del sacrificio al tavolo della comunione non è solo simbolico, ma teologico: la liturgia cristiana non è un ritorno all’olocausto, ma la memoria viva del dono.

L’Eucaristia, teologia del dono

Nel racconto evangelico, Gesù “prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: questo è il mio corpo, che è dato per voi” (Lc 22,19).

Il soggetto dell’azione non è il sacerdote ma Cristo stesso, e il destinatario non è Dio, ma l’umanità intera.

L’Eucaristia non è dunque un sacrificio “offerto a Dio per placarlo”, ma un dono che Dio fa agli uomini per salvarli.

L’azione liturgica diventa così “discesa della grazia”, non “ascesa della riparazione”.

È su questo punto che si gioca la differenza tra la Messa di Pio V e quella di Paolo VI.

La prima mette al centro il sacerdos alter Christus che intercede per il popolo; la seconda pone al centro il Popolo di Dioche, unito al sacerdote, diventa corpo eucaristico.

Non è una disputa estetica, ma un cambio di paradigma teologico: dal culto della trascendenza alla mistica della prossimità.

Un equilibrio ancora da compiere

Non mancano, certo, le derive.

La Messa riformata, talvolta ridotta a “convivio fraterno”, rischia di smarrire la dimensione sacra; ma il rimedio non è tornare indietro, bensì approfondire il senso del mistero nella comunione.

Come scrive Papa Francesco in Desiderio Desideravi (2022), la liturgia non è “una cosa da capire” ma “un dono da accogliere” (n. 19).

E Papa Leone XIV, nella linea di continuità con questa visione, ha ricordato che “la bellezza della Chiesa non è nella simmetria dei suoi riti, ma nella verità del suo amore eucaristico”.

La sfida resta quella di un equilibrio non compiuto: conservare la densità simbolica della liturgia antica senza rinunciare alla teologia del dono universale che la riforma conciliare ha restituito al cuore della fede.

Dal rito alla comunione

In fondo, la questione non è “quale Messa”, ma quale Dio celebriamo.

Un Dio che pretende il sacrificio del Figlio, o un Dio che si dona fino alla fine per amore?

Se la Croce è soltanto un’offerta verso l’alto, Dio resta distante; ma se è il segno della sua discesa verso i peccatori, allora la liturgia è il luogo dove la misericordia diventa carne.

Il rinnovamento liturgico, ancora in cammino, chiede di superare le polarizzazioni.

La Chiesa non ha bisogno di restaurazioni rituali, ma di una mistagogia della comunione: tornare al Cenacolo, dove Dio spezza il pane del perdono e lo consegna anche a chi lo tradisce.

Finché la Messa sarà percepita come un atto che l’uomo compie “per Dio”, e non come il gesto con cui Dio si consegna all’uomo, resteremo, come dice Pochon, “a metà del guado”.

La riforma non è finita, ma è l’unica direzione nella quale il Vangelo continua a chiamarci.

Celebrare in latino o in volgare, verso il popolo o verso l’altare, non cambia la sostanza del mistero: ciò che cambia è l’immagine di Dio che la Chiesa riflette.

La Messa di Paolo VI, nella sua semplicità, ci ricorda che il cuore dell’Eucaristia non è il sacrificio che l’uomo offre, ma il dono che Dio rinnova ogni giorno.

E forse, come direbbe Leone XIV, “tra la nostalgia e la riforma, il vero culto è l’amore che discende dal cielo e si fa pane per tutti”.