Non solo una strage antisemita, ma un messaggio preciso: colpire una celebrazione di Hanukkah in uno dei luoghi più iconici e aperti d’Australia. L’attacco di Bondi Beach interroga il nostro tempo su spazi pubblici, convivenza civile e sull’odio che oggi sceglie con cura quando e dove mostrarsi.
Non è solo la cronaca a rendere insopportabile ciò che è accaduto a Bondi Beach, ma la sensazione netta che nulla, in quell’attacco, sia stato casuale. Non il luogo, non il momento, non la festa che si stava celebrando. Una spiaggia simbolo dell’Australia aperta e mescolata, il primo giorno di Hanukkah, una celebrazione ebraica vissuta all’aperto, tra famiglie e bambini, nel cuore di uno spazio pubblico che per definizione appartiene a tutti. Colpire lì significa colpire molto più di un gruppo di persone: significa colpire l’idea stessa di convivenza.
Bondi Beach non è un recinto identitario, non è una sinagoga blindata, non è un luogo chiuso. È una cartolina nazionale, un luogo dove le differenze si sfiorano senza chiedere permesso. Proprio per questo diventa un bersaglio ideale per chi vuole affermare che non esistono più spazi neutri, che ogni identità visibile può essere trasformata in obiettivo. La violenza non si è abbattuta su un simbolo religioso isolato, ma su un frammento di vita civile condivisa.
Il “perché adesso” pesa quanto il “perché lì”. L’attacco avviene in un momento di tensione globale, in cui il conflitto israelo-palestinese continua a irradiare instabilità emotiva e politica ben oltre il Medio Oriente. In Australia, come in Europa e negli Stati Uniti, l’antisemitismo è tornato a essere una variabile attiva della polarizzazione, non più solo un residuo ideologico. La scelta di colpire durante Hanukkah, festa delle luci e della libertà religiosa, ha un valore simbolico preciso: oscurare una celebrazione che ricorda la sopravvivenza di un’identità minacciata, e farlo proprio mentre quella identità sceglie di mostrarsi senza paura nello spazio pubblico.
Hanukkah, nella sua essenza, non è una festa bellica. Ricorda la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme e il miracolo di una luce che continua ad ardere nonostante la scarsità dell’olio. È una liturgia domestica e gioiosa, che nella diaspora ha assunto anche una dimensione pubblica: accendere luci per dire che la fede non si nasconde. Colpirla significa colpire una grammatica religiosa che parla di resistenza spirituale, non di dominio. È una violenza che tenta di riscrivere il senso dei simboli, piegandoli alla logica dello scontro totale.
In questo quadro, l’eroismo improvviso di un passante musulmano che disarma uno degli attentatori rompe la narrazione tossica dello scontro di civiltà. È un dettaglio decisivo, perché dimostra che l’odio non nasce dalla convivenza, ma dalla sua distruzione sistematica. Ed è forse proprio questo che rende l’attacco ancora più inquietante: la volontà di negare la possibilità stessa di un vivere insieme nonostante le differenze.
Ma c’è un ulteriore livello, più scomodo, che merita attenzione. Atti come quello di Bondi Beach rischiano di produrre un effetto geopolitico indiretto ma potente: la legittimazione emotiva di una nuova fase delle operazioni militari israeliane contro i palestinesi, a Gaza e in Cisgiordania. Non sul piano del diritto internazionale, ma su quello — spesso decisivo — dell’opinione pubblica occidentale. Quando l’antisemitismo colpisce in modo così feroce, la capacità di distinguere tra la doverosa difesa delle comunità ebraiche e la valutazione critica delle scelte politiche e militari dello Stato di Israele tende a ridursi drasticamente.
Questo avviene proprio mentre Mahmud Abbas, Abu Mazen, ha tentato di riaprire un canale politico con le cancellerie occidentali, compreso il governo italiano, per sottrarre la questione palestinese alla morsa mortale tra Hamas e la risposta militare israeliana. Un tentativo fragile, forse tardivo, ma reale: rimettere Gaza e la Cisgiordania dentro un orizzonte diplomatico prima che tutto venga nuovamente assorbito dalla logica della forza. Un attentato antisemita di questa portata rischia di rendere politicamente impronunciabile qualsiasi distinzione, congelando ogni spazio di mediazione.
Il terrorismo, da sempre, non si limita a uccidere: riorganizza le percezioni, irrigidisce i fronti, azzera le sfumature. Se così fosse, Bondi Beach non sarebbe soltanto il luogo di una strage, ma anche un acceleratore geopolitico involontario, capace di spostare l’asse emotivo dell’Occidente e di rendere “comprensibile”, se non accettabile, una nuova escalation contro Gaza e la Cisgiordania.
È per questo che le domande sul luogo e sul momento non sono secondarie. Perché certe stragi non parlano solo del fanatismo di chi spara, ma del mondo che, dopo, rischia di ascoltare una sola voce. E perché colpire una festa di luce su una spiaggia aperta significa tentare di spegnere, insieme, la fiducia nello spazio pubblico e la possibilità di una politica che non sia prigioniera dell’odio.
