Israele riconosce l’indipendenza del Somaliland. Reazione durissima di Mogadiscio, ma anche della Lega Araba e dell’Unione Africana. Inaccettabili le secessioni di Stati sovrani legittimate dall’esterno. Ipotesi deportazione dei gazawi nel Corno d’Africa.
C’è un filo sottile che unisce Gaza al Corno d’Africa, e non è un filo umanitario. È un filo geopolitico, teso, carico di ambiguità, che in questi giorni rischia di strapparsi. La decisione di Israele di riconoscere unilateralmente il Somaliland – regione separatista della Somalia, indipendente de facto dal 1991 ma mai riconosciuta dalla comunità internazionale – ha prodotto una scossa che va ben oltre la diplomazia africana. A Mogadiscio la reazione è stata immediata e durissima: per il governo somalo si tratta di una violazione della sovranità nazionale, di un atto ostile che riapre ferite mai rimarginate.
Per capire perché questa mossa pesa così tanto, occorre partire dai fatti. Il Somaliland nasce dal collasso dello Stato somalo dopo la caduta del regime di Siad Barre, nel 1991. Da allora ha costruito istituzioni proprie, una moneta, un parlamento, una relativa stabilità in una regione segnata da guerre e terrorismo. Eppure, per oltre trent’anni, nessuno Stato membro dell’ONU lo ha riconosciuto, nel rispetto di un principio cardine del diritto africano: l’intangibilità dei confini ereditati dall’indipendenza, sancita nel 1964 dall’Organizzazione dell’Unità Africana. Un principio fragile, ma vitale, in un continente dove ridisegnare le mappe significa spesso riaprire conflitti.
È per questo che il riconoscimento israeliano ha fatto rumore. Non solo perché rompe un tabù diplomatico, ma perché arriva in un momento storico carico di sospetti. A Mogadiscio, il governo non parla solo di ingerenza, ma di “aggressione politica”. E dietro questa parola forte si affaccia una domanda che circola da mesi, soprattutto nel mondo arabo: Israele sta cercando nuovi territori dove “scaricare” il problema palestinese?
L’ipotesi – evocata più che dimostrata – è quella di una deportazione o trasferimento forzato di palestinesi, in particolare da Gaza, verso aree marginali e geopoliticamente deboli. Somaliland, in questa lettura, diventerebbe una pedina di scambio: riconoscimento internazionale in cambio di disponibilità territoriale. Una tesi che il governo israeliano non ammette, che il presidente del Somaliland respinge, ma che continua a serpeggiare perché si innesta su precedenti reali: nel corso degli anni, l’idea di “soluzioni esterne” per Gaza è stata più volte evocata, anche solo come scenario di studio.
Qui il problema non è stabilire se esista un piano segreto, ma riconoscere una tentazione ricorrente della politica internazionale: risolvere un conflitto spostando le persone invece di risolvere le cause. È una tentazione antica, sempre presentata come pragmatica, sempre giustificata dall’emergenza. E sempre, puntualmente, fallimentare sul piano umano.
Non sorprende allora che la Palestina abbia sostenuto apertamente la posizione somala, parlando di “linea rossa” invalicabile. Né sorprende la reazione dell’Unione Africana e della Lega Araba, che vedono nel riconoscimento del Somaliland un precedente pericoloso: se ogni potenza esterna può legittimare secessioni a proprio vantaggio, l’Africa torna a essere una scacchiera coloniale, non un soggetto politico.
Israele, dal canto suo, rivendica una scelta coerente con la propria strategia africana e la collega allo spirito degli Accordi di Abramo: nuove alleanze, nuovi partner, nuovi equilibri. Il primo ministro Netanyahu parla di opportunità storica e promette di sostenere il Somaliland anche davanti agli Stati Uniti. Ma qui emerge un altro elemento significativo: Washington prende le distanze. Non segue Israele, non riconosce il Somaliland, e manda segnali ambigui a Mogadiscio, mescolando sostegno politico e frustrazione per una stabilità che tarda ad arrivare.
In controluce, si intravede il vero nodo: il Corno d’Africa è tornato centrale. Rotte commerciali, sicurezza marittima, competizione tra potenze, timori per l’espansione di attori ostili. In questo gioco grande, Somaliland appare come un tassello appetibile. Ma quando la geopolitica accelera, il rischio è che il diritto internazionale resti indietro e che i più deboli – oggi i palestinesi, ieri i somali, domani altri ancora – paghino il prezzo delle scorciatoie.
Un giornale come Mediafighter non può che porre una domanda di fondo, più etica che strategica: si può costruire sicurezza calpestando la dignità dei popoli? Riconoscere uno Stato per interesse, ipotizzare trasferimenti forzati, ridurre comunità intere a variabili geopolitiche non è realismo, è disperazione politica mascherata da pragmatismo.
La pace non nasce dallo spostare i problemi lontano dagli occhi, ma dal riconoscerli per ciò che sono. E ogni volta che la comunità internazionale prova a risolvere un conflitto cambiando indirizzo alle vittime, finisce per certificare la propria impotenza. In Somaliland oggi si festeggia. A Mogadiscio si protesta. A Gaza si teme. Ma la vera posta in gioco è altrove: nel confine sottile tra diplomazia e cinismo, che una volta superato non lascia vincitori, solo nuove ferite destinate a durare più di qualsiasi riconoscimento.
