Mentre l’Occidente alza simbolicamente l’embargo e annuncia aperture storiche verso Damasco, la Siria del 2025 continua ad apparire come un mosaico di fratture, dolori e zone d’ombra. La rimozione delle sanzioni americane ed europee, salutata da molti come un passo verso la normalizzazione, rischia invece di accompagnare una spartizione economico-politica della Siria più che una sua ricostruzione giusta e solidale.
Lo scenario che si delinea dopo l’annuncio del presidente Donald Trump e la conseguente apertura dell’Unione Europea, riguarda non una pace piena, bensì una pace negoziata a più tavoli, in cui gli interessi geopolitici e finanziari hanno la precedenza sulla giustizia e sulla riconciliazione.
Il volto incerto della “nuova Siria”
Il nuovo uomo forte del paese, Ahmad al-Shara’a (Abu Muhammad al-Jolani), già a capo di milizie jihadiste, è stato accolto dai leader globali come interlocutore credibile. Ma le sue credenziali democratiche restano nebulose. La costituzione provvisoria, valida fino al 2030, concentra nelle sue mani tutti i poteri, mentre le vecchie élite del regime Assad sono sostituite da nuove figure, con la medesima mentalità estrattiva e clientelare. Nulla fa presagire un cambiamento di paradigma: solo un ricambio nel controllo delle leve del potere.
La presenza militare russa a Hmeimim, colpita da attacchi armati, è ora anche rifugio per famiglie alawite in fuga dai massacri perpetrati da fazioni alleate del nuovo regime. Gli scontri tra comunità alawite, druse e sunnite dimostrano che la guerra civile è tutt’altro che finita, e che la coesione nazionale rimane un miraggio.
La diplomazia delle economie forti
L’apertura di Trump e la mossa europea sono da leggere alla luce della corsa alla ricostruzione. Arabia Saudita, Turchia, Qatar ed Emirati Arabi Uniti si contendono già porzioni strategiche di territorio e progetti infrastrutturali: porti, zone commerciali, linee logistiche.
Il porto di Tartus, simbolo della presenza storica russa, è ora affidato agli Emirati per diventare hub commerciale regionale. Latakia resta in mano francese. La ricostruzione appare più come colonizzazione economica che come rilancio della sovranità popolare siriana.
A ciò si aggiunge la normalizzazione silenziosa con Israele, che occupa le Alture del Golan dal 1967 e ora esercita influenza anche sulle province sud-occidentali della Siria. Gli USA pongono come condizione per l’apertura finanziaria la cessazione del sostegno alle fazioni anti-israeliane e all’Iran, e una collaborazione attiva contro l’ISIS.
Dov’è la pace?
Di fronte a tutto questo, la domanda evangelica sorge naturale: “Chi beneficerà di questa apertura?” La gente comune, i sopravvissuti alle torture, ai bombardamenti e alla fame? O le élite che sapranno negoziare meglio con le potenze straniere?
La pace, per i cristiani, non è solo assenza di guerra, ma frutto della giustizia. Non basta riaprire i commerci se si chiudono le bocche di chi chiede verità. Non basta distribuire investimenti se non si ascoltano i poveri e i feriti.
Papa Francesco, in visita ai cristiani del Medio Oriente, aveva ammonito: «La ricostruzione non può essere solo materiale, ma deve partire dalla dignità di ogni persona». La Siria, crocevia di fedi e civiltà, non può essere ridotta a terreno di scambio geopolitico.
Uno sguardo cristiano
Da Aleppo a Suwayda, da Damasco alle rovine di Palmira, i cristiani siriani chiedono pace vera, non solo tregue. Chiedono che lo Spirito ricostruisca i cuori, oltre che le case. Che la Chiesa non resti spettatrice, ma sia presenza di consolazione e profezia.
I vescovi del Medio Oriente hanno più volte denunciato il rischio di una “pace della rassegnazione”, e hanno invocato una “giustizia che non dimentica i martiri”.
In questo tempo pasquale, mentre la comunità cristiana medita sullo Spirito che rinnova la terra, la Siria ci interpella: saremo disposti a credere nella pace come dono e responsabilità, e non solo come equilibrio di poteri?