Il nuovo processo d’appello per l’omicidio di Serena Mollicone è ripartito il 25 ottobre 2025 davanti alla III Corte d’Assise d’Appello di Roma, dopo che la Corte di Cassazione, con sentenza depositata nel luglio 2024, aveva annullato le assoluzioni pronunciate nel precedente grado di giudizio per “motivazioni contraddittorie e incomprensibili”. La prossima udienza è stata fissata per il 19 novembre 2025, mentre la sentenza è attesa nella primavera del 2026.

Dopo ventiquattro anni e due assoluzioni annullate, il caso di Serena Mollicone torna di nuovo in aula. La Procura generale di Roma ha chiesto oltre cinquanta testimoni e una nuova perizia sul buco nella porta della caserma dei carabinieri di Arce, dove – secondo l’accusa – la studentessa sarebbe stata colpita mortalmente prima di essere abbandonata nel bosco di Fonte Cupa.

Imputati l’ex comandante Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco, accusati di concorso in omicidio. La Cassazione aveva annullato le loro assoluzioni per “motivazioni contraddittorie e incomprensibili”. Adesso, davanti alla III Corte d’assise d’appello di Roma, il processo bis promette di riaprire non solo un fascicolo giudiziario, ma una ferita ancora aperta nella coscienza civile del Paese.

Il caso Mollicone torna in aula, e con esso tornano i fantasmi di una delle vicende giudiziarie più lunghe, dolorose e simboliche della cronaca italiana. Dopo l’annullamento delle assoluzioni da parte della Corte di Cassazione, è ripartito davanti alla III Corte d’assise d’appello di Roma il processo bis per l’omicidio di Serena Mollicone, la studentessa di Arce trovata morta nel giugno 2001 in un bosco di Fonte Cupa.

L’accusa, questa volta, non vuole lasciare nulla di intentato. Il procuratore generale ha chiesto oltre 50 nuovi testimoni e una nuova perizia sul famigerato “buco nella porta” della caserma dei carabinieri di Arce, un dettaglio che da anni rappresenta il possibile punto di svolta dell’intera vicenda. Proprio quella porta, secondo l’accusa, sarebbe stata colpita violentemente dalla testa di Serena durante una colluttazione, all’interno di un ambiente che – se le ipotesi venissero confermate – avrebbe dovuto rappresentare per lei protezione e non morte.

Imputati restano l’ex comandante della caserma, Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco, accusati di concorso in omicidio. Per la Cassazione, le motivazioni delle precedenti assoluzioni erano “contraddittorie e incomprensibili”, e non avevano affrontato in modo adeguato i nodi centrali del caso: la presenza di Serena in caserma, i depistaggi, il ruolo del supertestimone Santino Tuzzi, il carabiniere che aveva detto di averla vista entrare ma non uscire, prima di suicidarsi in circostanze mai del tutto chiarite.

La riapertura del processo, prevista fino alla prossima primavera, segna un momento decisivo. Non solo per la famiglia Mollicone – che da oltre vent’anni cerca giustizia con dignità e ostinazione – ma per l’intero sistema giudiziario italiano, troppo spesso incapace di dare una risposta in tempi ragionevoli a casi che travalicano il semplice fatto di cronaca.

Il “caso Arce” è diventato, suo malgrado, un simbolo di come la verità possa restare imprigionata dietro le porte di un’istituzione. Non si tratta soltanto di accertare una responsabilità penale, ma di comprendere come un sistema possa aver protetto sé stesso invece della verità. I depistaggi, le omissioni, le reticenze, gli errori tecnici e i silenzi di comodo sono diventati parte integrante di una storia che ha il sapore di un tradimento istituzionale.

La sorella di Serena, Consuelo Mollicone, ha ricordato con parole semplici ma durissime lo spirito con cui la famiglia affronta quest’ennesimo processo:

“Papà ci diceva sempre: cercate la verità. Non per vendetta, ma per giustizia.”

Quelle parole dovrebbero risuonare anche tra i banchi del tribunale. Perché, dopo ventiquattro anni, la verità non è più solo un diritto della famiglia Mollicone, ma un dovere dello Stato verso i suoi cittadini.

Ogni volta che un processo come questo si riapre, il Paese intero è chiamato a fare i conti con sé stesso. Con la lentezza delle indagini, con la paura di toccare i corpi uniformati dell’Arma, con il rischio di lasciar morire due volte una ragazza che aveva solo 18 anni.

Il processo bis, dunque, non è soltanto una pagina giudiziaria: è una prova di coscienza collettiva.

E se la giustizia avrà la forza di guardare oltre il buco di una porta, forse potrà finalmente aprirla, lasciando entrare la verità che da troppo tempo aspetta di respirare.

………………………………….

Chi era Serena Mollicone

Serena Mollicone non era solo una vittima di cronaca.

Era una ragazza di 18 anni, sorridente, gentile, cresciuta nel piccolo paese di Arce, in provincia di Frosinone. Studiava al liceo classico “Tulliano” di Arpino, dove amava il greco e la filosofia. Suonava il clarinetto nella banda musicale del paese e partecipava attivamente alla vita parrocchiale: una giovane donna sensibile, religiosa, capace di unire dolcezza e determinazione.

Dopo la morte prematura della madre, Serena era rimasta accanto al padre, Guglielmo Mollicone, carabiniere in pensione, che non avrebbe mai smesso di cercare la verità sulla sorte della figlia. Aveva un fidanzato stabile, amici sinceri e un forte senso del bene.

Ma nel piccolo centro di provincia vedeva crescere intorno a sé un disagio giovanile fatto di droga, piccoli traffici e silenzi colpevoli. Tra i ragazzi coinvolti c’era anche Marco Mottola, figlio del comandante della caserma dei carabinieri, un ambiente che Serena conosceva e rispettava.

Secondo l’ipotesi accusatoria, proprio la sua onestà e il desiderio di dire la verità l’avrebbero condotta alla morte: Serena avrebbe voluto prendere le distanze da quel giro e forse denunciarne le dinamiche, spingendosi a un confronto diretto con il figlio del maresciallo.

Quella scelta di coscienza, in un contesto chiuso e fragile, si sarebbe trasformata in tragedia.

Oggi, a più di vent’anni di distanza, il suo nome resta un simbolo di giustizia negata ma non dimenticata, di una gioventù che chiede ancora verità.

E in ogni udienza, tra le carte e le perizie, c’è chi continua a vedere in Serena non solo una vittima, ma una ragazza che ha pagato con la vita la fedeltà a sé stessa e ai suoi valori.

……………………………

I FATTI:

Il 1º giugno 2001 scomparve da casa. Due giorni dopo, il suo corpo venne ritrovato in un bosco a Fonte Cupa, con il cranio fratturato e il volto coperto da un sacchetto di plastica. Secondo l’accusa, Serena sarebbe stata uccisa nella caserma dei carabinieri di Arce, dove si era recata per affrontare Marco Mottola, figlio del comandante Franco Mottola. Il giovane – che secondo gli inquirenti faceva uso e spaccio di droga – sarebbe stato da lei rimproverato o minacciato di essere denunciato. Da lì, la colluttazione: un colpo alla testa contro la porta dell’alloggio della caserma, poi il corpo legato e abbandonato nel bosco.