132 morti, teste appese agli alberi, quartieri lavati col sapone dopo il sangue. L’operazione della polizia brasiliana a Vila Cruzeiro e Alemão è la più letale nella storia del Paese. Ma dietro il linguaggio della “sicurezza” si nasconde il fallimento politico di uno Stato che da decenni confonde ordine con violenza.

Il giorno dopo il massacro

Rio si è svegliata sotto una nebbia grigia che non era solo meteo. Le strade deserte, i negozi chiusi, i mezzi fermi, i residenti chiusi in casa.

Il Brasile ha contato i corpi: 132, secondo la Procura. Forse di più, a giudicare dalle file di cadaveri allineati dai residenti lungo le strade di Vila Cruzeiro. Una processione muta di madri e sorelle che riconoscono i propri figli per i tatuaggi o per il colore delle scarpe.

È la più grande strage nella storia della polizia brasiliana, peggiore perfino del massacro di Carandiru del 1992. Ma la retorica resta la stessa: “un’operazione riuscita”, secondo il governatore Cláudio Castro, che definisce i morti “narcoterroristi”.

La guerra senza fine delle favelas

Da decenni Rio vive una guerra a bassa intensità, in cui lo Stato e i gruppi criminali — oggi il Comando Vermelho — si contendono il controllo del territorio, delle armi, della paura.

La polizia entra nelle favelas come in un teatro di guerra, e ne esce con i numeri di un bollettino militare: decine di morti, fucili sequestrati, nessuna giustizia.

Dietro l’immagine ufficiale della “lotta al narcotraffico” c’è una logica più profonda: il bisogno politico di mostrare forza, di fare ordine per consenso.

Ogni governo regionale di Rio — da destra o da sinistra — ha usato la stessa grammatica: la sicurezza come spettacolo, la morte come prova di efficienza.

La paura come strumento politico

Il massacro avviene a pochi giorni dal vertice mondiale sul clima che si terrà in Brasile. E proprio mentre il presidente Lula prova a riposizionare il Paese come voce globale del Sud, Rio mostra al mondo la sua altra faccia: la brutalità di un modello di sicurezza senza Stato di diritto.

Il governatore Castro, vicino alla destra bolsonarista, parla di “narcoterrorismo” citando apertamente la retorica americana. È la stessa logica che negli Stati Uniti giustifica le operazioni extragiudiziali contro i cartelli: criminalizzare per disumanizzare.

Ma a differenza degli Usa, in Brasile le “guerre alla droga” si combattono nei quartieri dove vivono i poveri, non nei palazzi dove si decide chi è nemico.

La cultura della disumanità

Lavare le strade con l’acqua e il sapone — come accaduto ieri pomeriggio a Vila Cruzeiro — è un gesto che dice tutto.

Rimuovere il sangue, coprire le prove, restituire l’ordine visivo alla città, come se la pulizia cancellasse la colpa.

Ma non si lava via l’odore della paura, né il silenzio delle madri che aspettano davanti all’Istituto di Medicina Legale, mentre i corpi arrivano a lotti.

La violenza di Stato in Brasile non è eccezione: è struttura, è metodo, è linguaggio. È una guerra civile non dichiarata, combattuta dentro le periferie con la benedizione della politica.

Il paradosso della sicurezza

L’operazione di Rio arriva mentre il Paese tenta di riformarsi, di tornare credibile davanti al mondo.

Ma come può parlare di clima e diritti umani un Paese dove la sicurezza coincide con la sospensione della legge?

Il governo federale, colto di sorpresa, ha chiesto spiegazioni. Lula si è detto “sconvolto” e ha chiesto indagini, ma le indagini in Brasile raramente arrivano a sentenza.

Rio non è Kabul né Gaza, ma condivide con entrambe una stessa logica: la guerra come normalità.

Il confine tra giustizia e vendetta, tra polizia e milizia, è ormai indistinguibile.

Una città stanca

Per le famiglie, ogni operazione è un lutto annunciato. Ogni volta le stesse immagini: madri con le foto dei figli, striscioni scritti a mano, preghiere evangeliche sul ciglio della strada.

Ogni volta la stessa domanda: fino a quando?

Il Brasile è un Paese abituato alle statistiche della morte. Ma i numeri di Vila Cruzeiro non sono statistiche: sono una confessione.

La confessione di uno Stato che non riesce più a garantire la vita, e che chiama “successo” il proprio fallimento morale.

La più grande operazione di polizia nella storia di Rio non ha sconfitto il Comando Vermelho: ha solo ampliato la distanza tra lo Stato e i cittadini.

Ogni volta che la violenza diventa linguaggio politico, la democrazia perde terreno.

E in Brasile, come altrove, quando la sicurezza si misura in cadaveri, la pace è già finita.