Il governo Meloni ha liberato il generale libico Almasri — accusato di stupri, torture e crimini contro l’umanità — forse per compiacere Tripoli e ottenere in cambio il controllo dei flussi migratori. Ma ora è proprio la Libia a volerlo arrestare, mentre respinge i ministri italiani e svela il clamoroso fallimento di una strategia politica che ha barattato la giustizia con l’illusione del respingimento.
C’è un punto in cui la cronaca politica si trasforma in umiliazione nazionale. È il caso Almasri, diventato in queste ore non solo uno scandalo giudiziario e istituzionale, ma una beffa geopolitica. Mentre il governo Meloni si arrampica sugli specchi per giustificare la liberazione — con un volo di Stato — del generale libico Osama Njeem Almasri, accusato di crimini di guerra, torture, stupri, omicidi e altro ancora, accade l’impensabile: è proprio la Libia a volerlo arrestare.
Sì, la Libia lo cerca, lo convoca, gli notifica un ordine di comparizione. Lo considera un nemico, un fuggitivo, un problema. Proprio quel criminale che Roma ha liberato con discrezione, che il ministro Nordio non ha trattenuto e che la premier Meloni, oggi, tenta di difendere con un silenzio sempre più imbarazzante. Ma non basta: la Libia respinge il ministro italiano dell’Interno, Matteo Piantedosi, che si reca a Bengasi con una missione diplomatica e viene rispedito indietro senza essere ricevuto. Un’umiliazione diplomatica. Un segnale chiarissimo: non solo abbiamo fatto un favore sbagliato, ma l’abbiamo fatto al governo sbagliato, nel momento sbagliato.
Il cortocircuito del favore inutile
Il retroscena è già noto: l’Italia non trattiene Almasri non per disattenzione, ma per convenienza politica. L’intenzione, neanche troppo nascosta, è quella di compiacere le autorità libiche, come contropartita per il “contenimento” dei flussi migratori nel Mediterraneo. In altre parole, chiudiamo un occhio su un criminale, purché ci aiutiate a fermare i barconi. Una logica spietata, che traduce la lotta all’immigrazione in una moneta di scambio inumana, fatta di campi di detenzione, torture, sequestri e violazioni sistematiche dei diritti umani nei centri libici.
Ma proprio su questo punto, ora, la verità esplode: la Libia non solo non ci ringrazia, ma si dissocia. Il premier Dbeibeh dichiara pubblicamente di non aver mai chiesto la liberazione di Almasri. Anzi, afferma di aver ricevuto pressioni in senso opposto. E oggi, la procura libica emette dodici capi di imputazione nei confronti del generale. Un criminale da fermare, non da proteggere.
E allora — ci chiediamo — per chi è stato fatto quel favore? E a che prezzo?
Nordio non era solo. Meloni non poteva non sapere
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è oggi al centro delle polemiche. Ma ridurre tutto a un suo errore tecnico significa assolvere troppo facilmente una catena di comando molto più estesa. Le comunicazioni interne, le email della capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, i silenzi costruiti a tavolino, la bozza di nuovo arresto rimasta chiusa in un cassetto, dimostrano che Palazzo Chigi era informato e coinvolto.
La Corte penale internazionale ha detto chiaramente che l’Italia avrebbe potuto e dovuto trattenere Almasri e rimediare agli eventuali errori procedurali. Non lo ha fatto. Per volontà politica. E oggi, a distanza di mesi, l’intero piano si è rivelato non solo immorale, ma anche disastroso. In cambio del nulla, abbiamo consegnato un criminale alla libertà. Abbiamo fatto un favore che nessuno ci aveva chiesto. E ora siamo iscritti nel registro del sospetto internazionale.
Il fallimento di una dottrina: respingere i migranti a costo della giustizia
Il caso Almasri smaschera una strategia che si regge su un compromesso inaccettabile: tollerare la violenza, purché si blocchino le partenze. Ma la realtà è impietosa: in questi mesi gli sbarchi non si sono fermati, la situazione in Libia si è deteriorata, e ora lo stesso Almasri è diventato “scomodo” anche per Tripoli. Il 12 maggio, dopo la morte del capo dello Stability Support Apparatus, Gheniwa al-Kikli, la sua rete militare inizia a sgretolarsi. Almasri diventa un fuggitivo. La Rada, il suo storico bastione, viene dichiarata illegale. Il gioco cambia. E l’Italia resta col cerino in mano.
Ma il danno è ormai fatto. La nostra credibilità è stata bruciata. E non solo sul piano internazionale: è stata ferita la fiducia dei cittadini italiani, che oggi si chiedono: com’è possibile che un governo democratico abbia rimandato a casa con un jet militare uno stupratore di minori? Com’è possibile che si sia mentito al Parlamento, come suggeriscono le incongruenze tra le email interne e le parole pronunciate da Nordio in Aula?
Il tempo del silenzio è finito
Oggi le opposizioni chiedono le dimissioni del ministro. Ma il punto non è solo Nordio. È l’intero esecutivo a dover spiegare. È Giorgia Meloni a dover venire in Parlamento e dire la verità. Perché è impossibile che non sapesse. Perché è inaccettabile che su una questione di questa portata, la premier resti muta. E perché mentire al Paese, in democrazia, non può restare senza conseguenze.
La verità è che questo caso non è solo un errore giudiziario. È la prova di una cultura del potere che baratta diritti per tornaconto, che si piega alla paura invece che alla legge, che costruisce consenso su scelte che compromettono l’onore della Repubblica. E a pagarne il prezzo non sarà solo il ministro di turno, ma l’Italia tutta, nelle sue relazioni estere e nella sua coscienza civile.