L’industria che batte cassa e il prezzo che lo pagano i popoli
Dall’austerità al riarmo, la regia è sempre la stessa: la Germania detta le regole europee… finché non convengono più. A quel punto, le modifica.
Per anni ha imposto ai partner dell’eurozona vincoli rigidi di bilancio: tetti al deficit, soglie sul debito, tagli alla spesa sociale. Oggi, però, il mantra è cambiato: le regole si possono sforare, purché si sfori per le armi. E lo si fa in nome della “sovranità strategica europea”, un concetto vago quanto utile.
Utile a cosa? A rilanciare l’industria militare e metallurgica tedesca, quella stessa che oggi arranca sotto il peso della deindustrializzazione accelerata dalla transizione ecologica. Altro che difesa comune: il riarmo è la nuova forma di politica industriale continentale, con Berlino come primo beneficiario.
Una crisi interna, una soluzione bellica
L’economia tedesca – a lungo dominata dall’export manifatturiero e dalla chimica – sta perdendo colpi. I colossi energetici post-nucleari fanno fatica. Le acciaierie soffrono la concorrenza globale. Le auto tedesche non si vendono più come prima. La domanda interna è stagnante. Cosa resta?
La difesa, finanziata con fondi straordinari, fuori dal bilancio ordinario, con deroghe costruite su misura.
Il piano è chiaro: rilanciare l’industria strategica nazionale producendo armi, blindature, componentistica per sistemi NATO. E legittimare tutto ciò grazie a una narrativa emergenziale: la minaccia russa, la guerra in Ucraina, l’instabilità globale. Il nemico esiste, certo. Ma viene anche utilizzato – con abile torsione politica – per giustificare spese che fino a ieri erano impensabili.
L’Italia, tra subalternità e ritorni economici
L’Italia, che non ha mai avuto voce in capitolo sui grandi equilibri dell’eurozona, si allinea, come da copione. Ma stavolta non lo fa soltanto per docilità. Lo fa anche perché c’è da guadagnare.
Con Fincantieri, Leonardo, Rheinmetall Italia, Beretta e decine di aziende satelliti, il comparto industriale militare italiano può beneficiare della corsa agli armamenti. Non in posizione dominante, certo, ma nemmeno marginale.
L’Italia sarà fornitore intermedio, produttore di componenti, partner industriale in consorzi multinazionali. E i soldi, almeno in parte, arriveranno anche a noi. Pecorona, forse. Ma non sprovveduta.
Solo che i vantaggi saranno per pochi: imprese strategiche, capitali privati, distretti industriali legati al comparto difesa. Non per le scuole, non per gli ospedali, non per i treni pendolari.
Il rischio è chiaro: un nuovo ciclo di crescita drogata dal militare, a scapito del welfare, delle infrastrutture civili, del lavoro stabile.
Chi batte cassa davvero? Washington.
Il riarmo europeo, nella forma attuale, non è affatto autonomo.
L’Unione si dice “sovrana”, ma è integrata strutturalmente nel paradigma industriale e strategico USA.
Il grosso dei sistemi d’arma – missili, radar, software, tecnologie dual use – resta saldamente in mano americana. E mentre le aziende europee si rincorrono per ottenere una fetta del budget, Lockheed Martin, Raytheon, General Dynamics si assicurano i contratti più lucrosi.
L’Europa spende, l’America incassa. E, come sempre, gli armamenti prodotti dovranno trovare una “collocazione”: teatri di crisi, tensioni pilotate, guerre per procura, come già si è visto in Africa, nel Mar Rosso, nel Mediterraneo allargato.
Il rischio non è solo economico: è etico. Un’Europa che si reindustrializza sulle armi è un’Europa che dovrà usarle. Prima o poi. Contro qualcuno. Da qualche parte.
Sánchez isolato: la voce del dissenso
Nel quadro generale, l’unica voce fuori dal coro resta quella del premier spagnolo Pedro Sánchez.
Con toni cauti ma decisi, ha posto una questione fondamentale: può l’Europa sacrificare il sociale al militare?
Ha chiesto che le deroghe ai vincoli di bilancio servano a investire in ospedali, ferrovie, energie rinnovabili, non solo in blindati e munizioni.
Per questo, viene guardato con sospetto. Berlino tace, Parigi lo tollera, Roma – come sempre – evita il tema. Ma il punto che Sánchez solleva è decisivo: la difesa europea senza un’Europa sociale è solo un guscio vuoto. O peggio: un’arma in cerca di un motivo per sparare.
Armi sì, welfare no
L’Europa, oggi, si riarma per rilanciare la propria industria e superare una crisi che essa stessa ha contribuito a creare: prima con l’austerità, ora con la militarizzazione dell’economia.
Chi imponeva i vincoli li abbatte. Chi li subiva, ora si adegua. E intanto i popoli pagano: in tagli, in disuguaglianze, in servizi che si svuotano.
In apparenza è una strategia di sicurezza.
In realtà è una strategia di sopravvivenza del modello capitalistico europeo, che si rifà il trucco con l’elmetto.
Ma una domanda resta aperta, e urgente: può davvero esistere una pace costruita sulle armi?
O stiamo semplicemente preparando, pezzo per pezzo, la prossima guerra che giustifichi questo riarmo?