Nel cuore della cristianità, nel silenzio austero del Palazzo Apostolico, il vicepresidente americano JD Vance è tornato a tendere la mano. Lo ha fatto con la famiglia al seguito, visitando Roma e il Vaticano durante il triduo pasquale. Ma soprattutto lo ha fatto dopo settimane di tensioni, incomprensioni, dichiarazioni ambigue, politiche divisive. È venuto per riannodare, per ricucire. Ma si può davvero ricucire dopo aver strappato?
Il colloquio con il cardinale Pietro Parolin e l’arcivescovo Gallagher, per quanto definito “cordiale”, ha avuto il tono misurato delle diplomazie che si parlano più con i gesti che con le parole. E i gesti, in diplomazia vaticana, contano più di mille comunicati. Nessuna scomunica, ma nemmeno benedizioni affrettate. La distanza resta. Lo si capisce da ciò che viene detto – e soprattutto da ciò che non viene detto.
Un incontro di necessità, non di sintonia
Che ci sia ancora del gelo, è evidente. Su migranti e rifugiati, due fronti dolorosissimi dell’attuale scenario globale, il comunicato parla solo di “scambio di opinioni”. Nessun “comune impegno”. Segno che la Santa Sede non ha digerito né le deportazioni di massa teorizzate da Trump, né le uscite di Vance sul Papa e sui vescovi statunitensi, accusati di interessi economici nei programmi di accoglienza. Parole che non si cancellano con una visita turistica in Cappella Sistina.
D’altro canto, la diplomazia vaticana non è mai schiava dell’immediatezza mediatica. Punta a lungo termine. Per questo, anche quando riceve chi sostiene politiche aggressive o disumanizzanti, lo fa nella speranza di disinnescare, influenzare, aprire varchi di coscienza. Il Vaticano non fa alleanze politiche, ma si colloca dalla parte dell’umano, sempre.
La Chiesa non è un partito
Il problema, per Vance, non è solo geopolitico. È teologico. Il suo modo di leggere il cristianesimo appare ridotto a una sorta di etica dell’ordine familiare, chiuso, protettivo: l’“ordo amoris” come gerarchia di preferenze che mette la famiglia e il paese al di sopra del resto del mondo. Ma Papa Francesco ha risposto con fermezza: l’amore cristiano non è una spirale egoista che si espande solo se resta conveniente. È una carità che brucia le frontiere, che si piega sul samaritano straniero, che salva il nemico.
Il tentativo di appropriazione dell’identità cattolica a fini ideologici – soprattutto negli Stati Uniti – è una sfida drammatica per la Chiesa. La fede non è un’ideologia tribale, e i pastori non sono funzionari di Stato. Quando i vescovi americani difendono i migranti, non lo fanno per “interesse”, ma per Vangelo.
Guerra, pace, diritto alla vita: le vere urgenze
Nell’incontro si è parlato di guerre e crisi umanitarie. L’Ucraina, Gaza, le tensioni in Asia. Ma le divergenze restano profonde. Da una parte l’America di Trump e Vance, stanca, tentata dall’abbandono strategico. Dall’altra la Santa Sede, che chiede dialogo, multilateralismo, rispetto del diritto internazionale, come ha ribadito Parolin a La Repubblica.
Su Gaza, la distanza è abissale. La Santa Sede condanna ogni forma di annientamento di un popolo; Trump invece immagina di trasformare la Striscia in una “Riviera” e deportare i palestinesi. È la differenza tra realpolitik cinica e dottrina sociale della Chiesa. E non basta una foto con le campane di San Pietro a colmare un simile abisso.
Segni di apertura? Forse. Ma restiamo vigili.
La presenza della famiglia, il tono rispettoso, la partecipazione alla Liturgia della Passione: tutti segnali positivi. Ma non bisogna confondere la forma con il contenuto. Vance cerca legittimazione religiosa per una linea politica che continua a generare sofferenza ai più vulnerabili. La Chiesa, invece, è chiamata a essere madre dei poveri, non madrina del potere.
È giusto dialogare, ma senza cedere. È giusto accogliere, ma senza dimenticare. È giusto tendere la mano, ma senza piegare la schiena.
Il Vangelo non fa calcoli
In un mondo dilaniato dai confini, dalle guerre e dall’egoismo sistemico, la fede cattolica è chiamata a stare dalla parte dei ponti, non dei muri. La visita di Vance in Vaticano mostra che la Chiesa resta interlocutrice imprescindibile. Ma il vero dialogo comincia quando il potere ascolta davvero i poveri, non quando si fa fotografare con i pastori.
Perché il Vangelo non fa calcoli geopolitici: ama e basta. E ama, soprattutto, chi non ha nessuno che lo difenda.