Dietro le sbarre, la Costituzione promette rieducazione, ma la realtà spesso consegna solo punizione e abbandono. Celle sovraffollate, mancanza di percorsi formativi, pregiudizi radicati: così il recupero dei carcerati resta, in Italia, più un sogno che un progetto concreto.

La nostra Costituzione lo scrive nero su bianco: la pena non serve solo a punire, ma deve avere una finalità rieducativa. È una frase che conosciamo, che ripetiamo nei dibattiti pubblici, che finisce nei discorsi ufficiali. Ma basta varcare la soglia di un carcere italiano per capire quanto quella promessa sia ancora, nella maggior parte dei casi, un’utopia.

Le celle sono sovraffollate, spesso in condizioni al limite della dignità umana. Un sistema penitenziario con spazi pensati per 48mila persone ne ospita quasi 63mila. C’è chi dorme su letti a castello improvvisati, chi passa venti ore al giorno in pochi metri quadrati, con un compagno di cella sconosciuto e magari ostile. In questi spazi compressi, il tempo diventa stagnante e la mente, invece di aprirsi a nuove possibilità, si chiude ancora di più.

Eppure la rieducazione non è un’illusione astratta. Alcune esperienze virtuose lo dimostrano: carceri come Bollate, dove lavoro, formazione e responsabilità personale sono al centro della vita quotidiana, hanno tassi di recidiva molto più bassi della media nazionale. Ma sono eccezioni, oasi isolate in un deserto di strutture che faticano anche solo a garantire un minimo di attività riabilitativa.

Il problema è duplice. Da un lato mancano risorse e personale: educatori, psicologi, mediatori culturali sono pochi, spesso costretti a seguire decine di casi contemporaneamente. Dall’altro c’è un ostacolo culturale: una parte dell’opinione pubblica considera il carcere soprattutto come punizione. “Ha sbagliato? Che paghi”, si sente dire. E in questa logica, investire nel recupero sembra uno spreco, quasi un premio ingiusto a chi ha commesso un reato.

Ma una società che rinuncia a recuperare chi ha sbagliato rinuncia a proteggere se stessa. Perché un ex detenuto lasciato solo, senza competenze, senza reti, senza una nuova prospettiva, ha molte più probabilità di tornare a delinquere. E questo non è solo un fallimento etico, è anche un costo sociale ed economico enorme.

Il vero recupero richiede tempo, fiducia e un accompagnamento personalizzato. Significa credere che dietro le sbarre non ci siano solo colpevoli, ma uomini e donne capaci di cambiare. Significa dare loro strumenti concreti: istruzione, formazione professionale, percorsi terapeutici per chi ha dipendenze, programmi di mediazione con le vittime.

Oggi, però, siamo lontani. Finché non capiremo che la rieducazione non è un lusso, ma una necessità, resteremo in bilico tra la promessa della Costituzione e la realtà delle nostre carceri. Continueremo a parlare di recupero come di un bel sogno, senza avere il coraggio e la volontà di renderlo possibile.

E intanto, dietro le mura alte e i cancelli chiusi, vite intere continueranno a scivolare via.