Il raduno che non doveva esserci: quando l’ombra entra negli spazi comuni
Ci sono notizie che inquietano non solo per ciò che raccontano, ma per come accadono. Non nel clamore, non nella piazza aperta, ma in silenzio, quasi in punta di piedi. Il raduno internazionale degli Hammerskin avvenuto nel Varesotto appartiene a questa categoria: un evento che non si è imposto con la forza, ma si è insinuato negli spazi ordinari della vita associativa, approfittando di falle, superficialità, omissioni.
Cinquecento persone, provenienti da diversi Paesi europei e non solo, si sono ritrovate a metà novembre per un incontro che nulla aveva di folkloristico o marginale. Dietro la musica, dietro il linguaggio del “concerto”, si muoveva una rete ideologica esplicita, strutturata, dichiaratamente neonazista. Non una nostalgia confusa, ma una militanza consapevole, internazionale, organizzata.
Il problema non è solo chi si raduna, ma dove
Il punto più disturbante non è soltanto l’esistenza di questi gruppi — che purtroppo non è una novità — ma il luogo che li ha ospitati. Una struttura legata alla vita associativa locale, pensata per iniziative culturali e comunitarie, si è trasformata per una notte in un contenitore di simboli, slogan e rituali che richiamano l’odio razziale, l’antisemitismo, la violenza ideologica del Novecento.
Qui la questione smette di essere “di ordine pubblico” e diventa civile e morale. Perché quando uno spazio comune viene concesso — consapevolmente o no — a chi nega i fondamenti stessi della convivenza democratica, l’intera comunità è chiamata in causa. Non basta dire “non sapevamo”. Non basta rifugiarsi nella burocrazia dell’affitto.
L’ignoranza non è neutrale
Le dimissioni arrivate dopo la scoperta dell’evento sono un gesto significativo, ma non chiudono la questione. Anzi, la aprono. Se un consiglio direttivo non è informato, se non esistono controlli adeguati, se non si valuta chi chiede uno spazio e per quali finalità, il problema non è solo l’ideologia ospitata, ma la fragilità dei presìdi democratici locali.
L’ignoranza, in questi casi, non è mai neutrale. Diventa terreno fertile. I gruppi estremisti lo sanno bene: cercano luoghi normali, contesti “inermi”, spazi che non fanno rumore. Non hanno bisogno di palchi ufficiali; basta una tensostruttura, una porta aperta, una firma distratta.
Memoria e responsabilità
C’è poi un altro livello, più profondo. L’Italia è un Paese che ha conosciuto il fascismo, le leggi razziali, la guerra, la deportazione. Ogni episodio che richiama apertamente quell’immaginario non è mai solo attuale: è una ferita alla memoria. Non perché la storia si ripeta identica, ma perché viene banalizzata, svuotata, trasformata in sottofondo musicale.
Quando slogan di odio riecheggiano “per tutta la notte”, come riportato dalle ricostruzioni, non è solo un fatto di cronaca. È un segnale culturale. Indica che qualcuno si sente abbastanza sicuro da poterlo fare, abbastanza protetto da non temere conseguenze immediate.
Una vigilanza che riguarda tutti
Non serve gridare all’emergenza permanente, ma serve chiarezza. Razzismo, suprematismo, antisemitismo non sono “opinioni estreme”: sono negazioni della dignità umana. E non possono trovare cittadinanza — nemmeno temporanea, nemmeno inconsapevole — negli spazi che rappresentano una comunità.
Il caso di Lonate Pozzolo non riguarda solo Lonate Pozzolo. Riguarda tutte le realtà locali, grandi e piccole, chiamate oggi a esercitare una vigilanza che non è censura, ma responsabilità democratica. Perché la democrazia non si difende solo nelle grandi aule parlamentari, ma anche — e forse soprattutto — nei luoghi apparentemente più innocui: una sala, una festa, un affitto firmato senza domande.
Ed è proprio lì, in quelle pieghe quotidiane, che l’ombra cerca di passare. Sta a noi decidere se lasciarla entrare.
