La guerra civile censurata dalla storia d’Italia

La beatificazione di due sacerdoti uccisi dai nazisti in Emilia riapre la ferita della nostra storia: perché in quegli anni di fuoco a morire furono anche altri cristiani, come il giovane seminarista Rolando Rivi, vittima dei partigiani comunisti. Un’unica verità emerge: la guerra fu davvero civile, e l’odio — da qualunque parte colpisse — non seppe più vedere nell’altro un fratello.

Ci sono momenti in cui la storia, senza chiedere permesso, ritorna a bussare alla porta della coscienza nazionale.

La notizia della beatificazione di don Ubaldo Marchioni e padre Martino Capelli, uccisi dai nazisti nel 1944 mentre difendevano le loro comunità sull’Appennino emiliano, è uno di questi momenti.

Non solo perché restituisce dignità a due pastori straordinari, ma perché obbliga il Paese — ancora una volta — a guardare senza paura dentro la sua ferita più profonda: la guerra civile.

Già, guerra civile. Lo è stata.

Lo sapevano bene le donne e gli uomini che, tra il 1943 e il 1945, vivevano in un’Italia dove ogni collina poteva diventare un confine, ogni parrocchia un rifugio, ogni sacerdote un segno di contraddizione.

E lo sapeva, soprattutto, un ragazzo di quattordici anni che portava la talare: Rolando Rivi, il seminarista modenese assassinato dai partigiani comunisti nel 1945 “perché prete”.

Una vita spezzata da un odio che non aveva più occhi per riconoscere nell’altro un figlio di Dio.

Non si tratta di fare confronti impossibili tra vittime.

La santità non fa graduatorie.

Si tratta, piuttosto, di leggere insieme queste pagine della storia per capire, finalmente, che la violenza di quegli anni non aveva un solo volto, e che l’Italia ha portato addosso colpi che arrivavano realmente da due direzioni.

Due sacerdoti davanti alla furia nazista

Ma la furio assassina non veniva solo dai rossi.

Don Ubaldo Marchioni, 26 anni.

Padre Martino Capelli, 32.

Entrambi avrebbero potuto fuggire. Entrambi scelsero di restare.

E quando arrivò il vortice di fuoco dei rastrellamenti tedeschi, non si nascosero dietro il diritto di salvarsi, ma davanti all’altare — nel luogo in cui ogni sacerdote fa esistere il Corpo di Cristo — offrirono la loro vita per la loro gente.

Don Ubaldo muore sull’altare. Padre Martino muore con i suoi prigionieri, dopo averli confessati uno a uno.

Morirono perché cristiani, perché pastori, perché la loro sola presenza ricordava ai loro assassini che esiste una potenza che nessun totalitarismo sopporta: la libertà dell’amore. Il martirio “in odio alla fede” non è un’etichetta tecnica. È un grido.

È la memoria di un mondo in cui la fede era considerata nemica, ostacolo, pericolo.

Rolando Rivi e l’altra parte della notte

I nuovi beati emiliani, e Rolando Rivi, hanno in comune questo: sono vittime di mani che non seppero più riconoscere nell’altro un simile, un figlio, un uomo.

E questo dice una verità necessaria: la violenza non ha monopolio ideologico.

La crudeltà non ha bandiera.

L’odio può portare divise diverse, ma colpisce sempre la stessa carne.

La memoria che guarisce non è quella che assolve, ma quella che riconosce

Molti, per decenni, hanno cercato di trasformare la Resistenza in un mito perfetto, e altri hanno cercato di farne solo un elenco di vendette.

La verità sta altrove, in quel terreno difficile che richiede maturità, e che la Chiesa conosce da venti secoli: si chiama riconciliazione.

Non riconciliazione come amnistia morale, ma come capacità di leggere la storia senza paura, senza tifoserie, senza revisionismi opposti.

Riconciliazione come riconoscimento che, negli anni del fuoco, in Italia è accaduto di tutto: atti di eroismo e atti di barbarie, gesti di santità e gesti di follia, salvezze e tradimenti.

Né i nazistifascisti avevano il monopolio del male, né i partigiani quello del bene.

Ricorderemo anche don Giovanni Minzoni, don Giovanni Pessina, Aldo Mei, don Lorenzo Bedeschi, il beato don Olinto Marella, solo per citarne alcuni.

E dentro questa complessità, la santità dei martiri — da una parte e dall’altra — è come una lama di luce che squarcia la notte.

La fede come ultimo confine umano

C’è un punto che unisce i beati don Ubaldo e padre Martino con il giovane Rolando Rivi: la fede fu per loro l’ultimo confine della dignità umana.

Per i nazisti, quel confine era un insulto. Per i partigiani comunisti più ideologizzati, era un bersaglio.

Ma ciò che li unisce non è la morte.

È il modo in cui hanno vissuto: con una libertà che la violenza non ha saputo piegare.

C’è una frase di Roland Barthes che sembra scritta per loro: «Il martire è colui che muore non per ciò che crede, ma per ciò che è.»

Ed è vero: erano cristiani, e questo bastò perché il mondo in armi decidesse che non dovevano più esistere.

Non una memoria contro, ma una memoria per

Oggi, nell’Italia di 80 anni dopo, mentre la nostra epoca riscopre purtroppo fantasmi di polarizzazione e parole che dividono, questi volti ci ricordano che la memoria cristiana non è mai vendetta, mai bilancio politico, mai calcolo identitario.

È memoria per la pace.

Per la verità.

Per l’umano.

Don Ubaldo, padre Martino, Rolando Rivi: diversi per età, contesto, persecutori.

Uguali nel sigillo: odium fidei.

E forse il messaggio più grande che possiamo ricevere da loro oggi è proprio questo: che l’unica vittoria che non invecchia è quella dell’amore; che l’unica memoria che salva è quella che non divide; che l’unica storia che vale è quella che riconosce, finalmente, che ogni vita spezzata da mani fratricide è una sconfitta per tutti.

E che solo la verità intera, non quella di parte, può generare pace.