Il corpo femminile continua a essere trattato come merce, persino dentro il matrimonio. Il caso del gruppo “Mia Moglie” rivela la perversione di mariti che trasformano l’intimità in spettacolo, tradendo fiducia e dignità delle proprie compagne. Una violenza che non si consuma solo con lo sguardo del branco, ma che nasce già nella complicità malata di una cultura che riduce la donna a oggetto di scambio.
Pensavamo, dopo il caso di Gisèle Pélicot, che qualcosa fosse cambiato. Che lo scandalo dei processi a porte aperte contro i mariti-abusatori avesse finalmente spostato la vergogna dal lato delle vittime a quello dei carnefici. Invece no. Il caso del gruppo Facebook “Mia Moglie”, con decine di migliaia di iscritti, dimostra che la cultura della mercificazione del corpo femminile non solo non è tramontata, ma continua a germogliare persino nei luoghi più intimi: dentro la coppia, dentro il matrimonio.
Mariti che fotografano di nascosto, che rubano immagini dall’intimità coniugale e le gettano in pasto a un branco digitale. Compagni che trasformano la fiducia più profonda in un palcoscenico di esibizionismo volgare. Non sono soltanto “traditori”: sono venditori. Trasformano le mogli in merce di scambio, in figurine da collezione, in biglietti da visita per ottenere approvazione maschile. È pornografia domestica travestita da goliardia, ma in realtà è una nuova forma di stupro: perché violare la privacy del corpo è violare la dignità della persona.
E qui occorre dirlo senza sconti: la colpa non è solo degli uomini che gestiscono e alimentano questi canali. Quando c’è, anche la consensualità delle mogli che accettano di farsi fotografare e condividere — magari per gioco, per compiacere, per paura di perdere il marito — non può essere assolta senza critica. La libertà che diventa auto-oggettivazione non è vera libertà, ma cedimento a un modello culturale che riduce la donna a carne di esposizione. Non basta dire “l’ha voluto anche lei”: perché il consenso, quando nasce in un contesto di squilibrio e di ricatto affettivo, porta comunque il marchio della violenza.
Siamo davanti a una mutazione della logica patriarcale. Non più (o non solo) lo sconosciuto predatore che aggredisce per strada, ma il marito che “amministra” il corpo della moglie come capitale simbolico. Un capitale da mettere sul mercato dei social, per guadagnarsi like, riconoscimenti, approvazioni. La donna diventa così un “bene relazionale” da esibire per rinsaldare complicità maschili, non più soggetto d’amore ma oggetto di scambio. È la logica del capitalismo applicata all’intimità: non conta l’incontro, ma la rendita. Non conta la relazione, ma l’immagine che se ne può estrarre.
Eppure, al cuore del matrimonio — lo dice la Bibbia, lo dice la Chiesa, lo dice la semplice esperienza umana — c’è un’altra logica: quella della donazione reciproca, della custodia, della fedeltà che non umilia ma solleva. “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una carne sola” (Gen 2,24). Una carne sola non si mercifica, non si vende, non si mette in vetrina. Si custodisce.
Serve allora una presa di coscienza collettiva: non bastano le denunce, pur necessarie. Occorre smontare il sistema che alimenta questa “pornografia di coppia”, dove il desiderio non si nutre più di intimità, ma di esibizione. Bisogna dire con chiarezza che il corpo della donna non è una piattaforma su cui il maschio fragile può costruire la propria autostima. E che un matrimonio dove la fiducia diventa materiale da circolazione online non è più un matrimonio, ma una forma di sfruttamento.
L’illusione dei social è che tutto possa diventare contenuto, condivisibile, monetizzabile. Ma non tutto lo è. Soprattutto non lo è il corpo, che resta il tempio della dignità umana. La vera liberazione femminile passa anche dal rifiuto di queste dinamiche, e dalla capacità delle donne di dire un “no” che non sia solo difesa, ma profezia: il mio corpo non è merce. Neppure nelle mani di mio marito.