L’attacco israeliano a Doha contro i leader di Hamas non è solo un’azione militare: è il crollo della “zona franca” costruita dall’emiro Al Thani, che per anni ha creduto di poter restare intoccabile muovendosi tra Washington, Teheran, Tel Aviv e i Fratelli Musulmani. Ora il regno rischia di pagare il prezzo dei suoi equilibri pericolosi.

Per anni il Qatar ha giocato la parte del “Machiavelli del Golfo”: finanziatore delle primavere arabe, protettore dei leader di Hamas, regista di mediazioni impossibili, e nello stesso tempo alleato strategico degli Stati Uniti, ospitando la base di Al Udeid e moltiplicando investimenti miliardari in Europa. Una potenza minuscola, resa grande dall’ambiguità.

Ma il raid israeliano nel cuore di Doha ha spezzato l’incantesimo. Non è stato solo un colpo al vertice di Hamas: è stata una dimostrazione che lo scudo qatariota non funziona più. L’Emiro non è più arbitro ma parte in causa, esposto alle pressioni di Trump, che non gli perdona di aver garantito impegni che Hamas ha subito disatteso.

Il Qatar rischia l’isolamento. Il prestigio costruito con Al Jazeera e con i negoziati internazionali è incrinato. Peggio ancora, l’eventualità che gli Stati Uniti possano spostare la loro base strategica in Arabia Saudita metterebbe Doha di fronte a un’umiliazione storica: passare da hub globale a pedina marginale.

Il Golfo, e con esso il Medio Oriente, entra così in una nuova fase. Se l’Emiro non piegherà Hamas, rischia di vedere evaporare in pochi mesi quel capitale diplomatico e finanziario che sembrava eterno. È la fine di un doppio gioco che il mondo arabo conosce bene: chi vuole stare su tutti i tavoli, alla fine, rischia di restare senza sedia.