15 Maggio 2025, Istanbul. Doveva essere il teatro di una svolta. Invece, è stato lo scenario dell’ennesima pace fallita prima ancora di cominciare. Vladimir Putin ha scelto di non presentarsi ai colloqui con Volodymyr Zelensky, mandando al suo posto una delegazione tecnica e ambigua. L’Ucraina, che con l’appoggio della Turchia si era dichiarata pronta a trattare, ha atteso invano un segnale di serietà da Mosca. Nulla. A Erdogan, spettatore e padrone di casa, non è rimasto che ospitare Zelensky ad Ankara, mentre a Istanbul i giornalisti affollavano inutilmente il palazzo di Dolmabahçe.

L’assenza di Putin è stata il colpo finale su una trattativa che non ha mai davvero preso quota. Troppo deboli i segnali, troppo deboli le delegazioni. Dietro la forma, il vuoto. E dietro il vuoto, un’amara verità: l’Occidente ha perso la guerra che credeva di vincere senza condizioni.

Nel 2022, la pace era a portata di mano. I canali tra Mosca e Kiev erano ancora aperti. I negoziatori si parlavano. Eppure, a far saltare tutto fu anche l’Europa, colpevolmente convinta — come Giorgia Meloni e altri capi di governo — che la Russia potesse essere “sconfitta sul campo”, umiliata, espulsa dalla storia. Boris Johnson, allora premier britannico, atterrò a Kiev per sconsigliare ogni tregua. L’Ucraina, spinta dagli alleati, rifiutò qualsiasi congelamento del conflitto. Si scelse la strada lunga, quella delle sanzioni, dei carri armati tedeschi e degli F-16 americani. Ma non è arrivata né la disfatta russa né la resa di Putin. Solo un prolungamento insensato del dolore.

Oggi, l’Ucraina è in ginocchio: territorio amputato, industria distrutta, popolazione sfollata. La Russia, pur logorata, è ancora lì, più cinica e attendista che mai. Il tempo, dicono i suoi strateghi, gioca dalla sua parte. E infatti non ha fretta. Chiede ora il riconoscimento dei territori annessi, la neutralizzazione militare dell’Ucraina, la fine del sostegno occidentale a Kiev. È la lista di condizioni che nessun governo ucraino può accettare senza dissolversi. Ma è anche la dimostrazione che Mosca crede di avere il coltello dalla parte del manico.

Gli Stati Uniti, oggi guidati da Donald Trump, si sono sfilati dal fronte intransigente di Biden. Il presidente democratico, ormai ex, aveva immaginato un’altra guerra fredda, con l’annientamento geopolitico della Russia. Ha finito col rafforzare l’asse Mosca-Pechino. Ora Trump cambia spartito: non vuole più punire la Russia, ma usarne il peso per contenere la Cina. È per questo che ha cercato — invano — di coinvolgere Putin a Istanbul. Ha sospeso aiuti militari a Kiev, ha attaccato Zelensky per “mancanza di gratitudine”, ha provato a offrire a Mosca lo scambio: meno sanzioni, più distacco da Pechino. Per ora, è rimasto fuori dal gioco. Ma non ha chiuso la partita.

Nel frattempo, l’Europa scopre di non contare più nulla. Spaccata tra atlantisti delusi e neutralisti realisti, incapace di imporsi come forza autonoma, non ha né guidato né fermato. Ha solo seguito. Oggi si trova tra le mani un’Ucraina devastata e un vicino orientale ostile, senza possibilità di influenza. La sua grande sconfitta è diplomatica, morale e strategica.

In questo quadro desolante, l’invito al dialogo di Papa Leone XIV — “guardatevi negli occhi” — resta inascoltato. Il Pontefice, con la sua voce mite e disarmata, ha chiesto alle parti di sedersi, di smettere di usare la guerra come linguaggio. Ma l’umanità sembra preferire ancora una volta le macerie alle parole. Nessuno ha saputo o voluto raccogliere il suo appello.

I colloqui di Istanbul sono finiti prima di iniziare. E con essi anche l’illusione di un Occidente capace di gestire la pace dopo aver fallito la guerra. Oggi non si tratta più di vincere. Si tratta, almeno, di non continuare a perdere. Ma per farlo, serve ciò che a Bruxelles e a Washington è mancato sin dal principio: realismo. E memoria.